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"Le rigidità disciplinari nuocciono agli studi sul patrimonio culturale". Con questa dichiarazione lo storico Roberto Balzani, che già aveva fornito un'ottima prova sul campo (Per le antichità e le belle arti: la legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l'Italia giolittiana, il Mulino, 2003), avvia il saggio di apertura di questo volume. La storia del patrimonio culturale è un contenitore rischioso, una "terra di mezzo" che, nonostante i crescenti contributi, continua a risultare spesso inesplorata. L'insieme di studi qui proposto si presenta come una verifica degli strumenti di indagine, con esiti tanto più convincenti quanto più ancorati a una seria riflessione sulle prospettive e sul metodo della ricerca storica applicata a collezionismo, musei e conservazione. Questi ambiti non sono riconducibili a descrizioni univoche, la loro comprensione passa per intrecci disciplinari e variazioni temporali, in linea con la "natura processuale" di questi fenomeni. Il museo è in questo senso esemplare, perché la sua storia è una continua immissione di oggetti, significati, aspirazioni e identità, e il valore di tutti questi elementi è immerso in un determinato periodo storico e in uno specifico luogo, amalgamato dai saperi e dalle volontà delle persone. La fisionomia dei musei e delle figure che hanno segnato il loro sviluppo annovera in questo volume due felici esplorazioni: una è offerta da Donata Levi, che conduce una raffinata lettura dei legami tra il lavoro critico, l'impegno didattico e la visione museografica di John Ruskin e definisce la distinzione da lui adottata tra musei per educare e musei per conservare; l'altra è quella di Simona Boron, che ripercorre l'impegno di Gaetano Ballardini per il Museo delle Ceramiche di Faenza fra recupero dell'identità artistica locale, impulso verso la produzione industriale e collezionismo.
La pratica del collezionismo, affrontata in luoghi ed epoche differenti, è interpretata in un'ottica di contesti e relazioni: come nel caso del Museo Ducale di Parma, dove Anna Rita Parente propone un'analisi del rapporto tra Paolo Maria Paciaudi e Caylus sullo sfondo delle ambizioni di prestigio europeo di Filippo di Borbone e dei legami politici e culturali del ducato con la Francia; o ancora, nell'approfondimento di Luisa Avellini e Lara Michelacci sul collezionismo di Giuseppe Campori, partecipe del recupero storiografico della Deputazione modenese, sotto l'egida dell'amor patrio e della vocazione didattica.
La città, intesa come ambiente fisico, sociale e culturale, è uno degli ambiti più stimolanti su cui misurare il significato delle scelte collezionistiche e museali postunitarie, quando le istituzioni culturali civiche sono investite di un importante compito educativo. Gli oggetti che entrano a far parte di queste istituzioni (musei civici e biblioteche, ma anche scuole di disegno e istituti tecnici) costruiscono un sistema di riferimenti che, con geografie variabili, tiene uniti la memoria e il futuro dei luoghi. Le città di provincia, dove gli indirizzi politici e ideologici sono più variabili, si prestano con particolare favore all'indagine su casi specifici. Sono anche i luoghi in cui la fioritura collezionistica avvenuta tra Otto e Novecento attende ancora il vaglio di una ricerca storica documentata che, sventando facili semplificazioni, possa contribuire ad arginare le manipolazioni pretestuose cui il patrimonio culturale è spesso soggetto. Sara Abram
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