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Anno edizione: 2018
Anno edizione: 2018
A Odessa ogni storia è una storia di famiglia e le storie sembrano infinite, non si esauriscono mai. Il mitico porto, ormai ucraino, sul mar Nero è un luogo letterario per eccellenza, da Isaak Babel a Edmund de Waal. In questo angolo di mondo, nonostante antisemitismo e pogrom gli ebrei seppero moltiplicarsi. Fino all’orrore totale della Shoah e alle migrazioni verso Israele, la comunità ebraica era numerosa e prosperava, prima di tutto il male un odessita su tre era ebreo. Lo era anche Vladimir Jabotinsky, morto sessantenne d’infarto a New York nel 1940, noto universalmente come controverso fondatore del sionismo revisionista (il suo interesse per il sionismo nacque mentre studiava a Roma, città che torna anche nella sua narrativa…) e creatore della Legione ebraica, personalità a cui la destra israeliana guarda come un modello, sebbene nei decenni precedenti la sua figura (sosteneva, fra le altre cose che ai palestinesi bisogna saper opporre una volontà d’ acciaio, perché in tal caso essi si piegano, si rassegnano) fosse stata relegata quasi dietro le quinte, derubricato dai suoi avversari politici come un “fascista”. Nell’estate del 1922 Jabotinsky, che sarebbe poi diventato uno dei fondatori dello Stato di Israele, fu mandato in missione in Italia (che considerava un po’ una terra d’elezione) per incoraggiare Mussolini ad assumere un atteggiamento amichevole verso il progetto sionista. Era un politico Jabotinsky, di idee tutt’altro che illuminate, ma che non disdegnava la vocazione letteraria. Con risultati esaltanti.
Quattro anni prima di morire Jabotinsky diede alle stampe, a Parigi, il suo secondo romanzo, I cinque (310 pagine, 16 euro). A Odessa ogni storia è una storia di famiglia. E la sua non fa eccezione. Pubblicato da Voland, casa editrice che ha nel suo Dna l’attenzione al mondo letterario slavo (a cominciare dalle inclinazioni e dagli studi della fondatrice Daniela Di Sora), I cinque, gode della traduzione e della cura di Marta Zucchelli, che si è dovuta districare con una lingua, il russo di Odessa, decisamente contaminata da vocaboli di disparata provenienza, come quella di tutti i popoli che passavano da quelle parti. Il romanzo è eccellente, magistrale per certi versi, e non solo come elegiaco e ironico ritratto di un’Odessa (quella allegra e multietnica dei primi del Novecento) che avrebbe lentamente cambiato volto. La saga familiare su cui si regge ha poco da invidiare ai caposaldi del genere. In un luogo cosmopolita e accogliente per eccellenza, un mix in cui convivevano ebrei, armeni, russi, greci, tedeschi e ucraini, si dipanano le vicende di un pezzo di borghesia ebraica, la famiglia Mil’grom, Anna, Ignac e i loro cinque figli, Marusja, Marko, Lika, Sereza e Torik.
Con scioltezza narrativa Jabotinsky intreccia i destini delle due sorelle e dei tre fratelli, cinque tipi umani diversi fra loro, tutti impegnati nella ricerca di un altrove rispetto a ciò che sono, fanno e hanno. Li osserva e li racconta il narratore in prima persona, un giovane giornalista, a cominciare dal primo incontro in teatro con la maggiore di loro, la fulva Marusja. Prima di precipitare nella disintegrazione della famiglia Mil’grom – l’unico reduce, Torik, si convertirà al cristianesimo – la storia sa anche essere ironica e colorata, vitale e ottimista. Le nubi di un antisemitismo atavico e i risvolti violenti della rivoluzione bolscevica contribuiscono a fare a pezzi un mondo che Jabotinsky racconta e descrive con grande maestria, probabilmente perché ne è innamorato.
Recensione di Giovanni Leti
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