Le vecchie zie… tutte maestre, «fusti di quercia, dalle radici ben solide», «custodi dell’ordine classico», «fedeli gendarmi dello stato», e ancor più fedeli all’avarizia come «segno di decoro… atto di fede… principio morale… norma pedagogica». Romantico fustigatore dei costumi, Leo Longanesi sapeva benissimo che le vecchie zie, specie in via di estinzione, non ci avrebbero salvato, messe in soffitta come busti impagliati, spodestate dal progresso e da nipoti coi sogni a colori. Erano l’emblema di una borghesia dal candore provinciale antica già allora (nel 1953), che aveva fatto le ossa al paese e l’aveva tenuto in piedi, che amava le cose solide e ben fatte: Longanesi la guarda da lontano, con rispetto e un pizzico di nostalgia. Quella che da par suo sbeffeggia in questo libro è una borghesia (grossa e piccola) dimentica di tutto, di un passato del quale ha ingigantito i pochi vizi e perduto le molte virtù, orfana dei doveri ma con il mito dell’automobile, che considera la cultura un lusso inutile e palpita per i bagni in ceramica, accomunata tutta da «uno scopo breve, una mira corta». Si afferma il bru-bru, versione riveduta e scorretta del travet del buon tempo andato e antesignano dell’odierno portaborse. Nella Milano delle primissime insegne al neon un napoletano cerca lavoro con un sorriso, gli operai sciamano in bicicletta verso le fabbriche di una periferia che sta cambiando, le case che a poco a poco invadono i prati. Dopo oltre mezzo secolo le pagine di questo moralista scomodo del Novecento italiano conservano intatta la loro carica corrosiva, e profetica. Lo spirito acre che le attraversa è temperato da una carezza che prepara la frustata, il motto definitivo. E tutto è scritto in una prosa intinta nel vetriolo ma di eleganza soave, la cui semplicità è il frutto di mille disgusti e di una dottrina antica. )
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