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Asor Rosa, Alberto (a cura di), Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, Einaudi , 2000
Baldacci, Luigi, Novecento passato remoto. Pagine di critica militante, Rizzoli , 2000
Merola, Nicola, Un Novecento in pccolo. Saggi di letteratura contemporanea, Einaudi , 2000
Sanguineti, Edoardo, Il chierico organico. Scritture e intellettuali, Feltrinelli , 2000
Spinazzola, Vittorio, Letteratura e popolo borghese, Unicopli, 2000
recensioni di Antonelli, G. L'Indice del 2000, n. 11
Quanto dura un secolo? Parlando di letteratura la domanda non è così oziosa, se è vero che per Asor Rosa il Novecento "nasce negli anni '20" e per Barenghi - fedele all'Hobsbawm del Secolo breve - prende congedo "verso la fine degli anni Ottanta" (gli ultimi dieci anni si situano dunque Oltre il Novecento). Nella prospettiva di Spinazzola, invece, un'unica campata cronologica "va da fine Ottocento ad oltre la metà del Novecento", tagliando fuori proprio quel "Novecento primonovecentesco" che Baldacci valorizza, in aperto contrasto coi glorificatori dell'attualità. I "giudizi in punto di morte" dati da quest'ultimo, galleria di tombeaux e "coccodrilli" giornalistici, cantano un requiem che si situa - come vuole Ferroni - Dopo la fine, in piena sintonia con chi riconosce nell'oggi un "panorama sconfortante - che vede il trionfo di prodotti mediocri come i romanzi di Tamaro e Baricco" (Bernardini, nel volume Einaudi).
Tra dibattiti epocali e timori millenaristici, ha dunque preso il via anche per il Novecento l'inevitabile processo di secolarizzazione, e con esso l'immancabile processo di canonizzazione dei pochi nomi che giungeranno ai posteri grazie a quel veicolo "del comune sentire letterario che sono le antologie scolastiche" (Merola). Dalla secolarizzazione alla scolarizzazione, come si vede, il passo è breve: scrivere che "Montale è sempre il primo della classe" (ancora Merola) significa eleggerlo ipso facto a classico.
Ma che cos'è un classico? Secondo una celebre definizione di Calvino (l'altro primo della classe novecentesco), "un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire". Gli fa eco Pontiggia: "noi non leggiamo un classico per le sue qualità, ma per l'importanza e la bellezza di quello che ci dice. Un classico è un'esperienza radicale, un incontro che ci modifica, non un ritrovamento di aspetti reperibili in altri". D'accordo, ma in che modo si diventa un classico? e soprattutto - corollario decisivo - chi incorona i classici? Non gli allori degli agoni letterari; neanche il Nobel, se si guarda all'oblio in cui è caduto Quasimodo e da cui qualcuno cerca ora di risollevare la Deledda (ad esempio Baldacci). Non - o almeno non più - l'allure della critica (anche se la prima voce con cui questi consuntivi fanno i conti rimane quella dei critici precedenti): oggi, come nota giustamente Spinazzola, in un quadro di "indebolimento allarmante del ruolo assolto nel campo della pubblicistica militante (...), le classifiche dei successi finiscono per offrire gli unici punti di riferimento disponibili".
E allora? Allora il classico novecentesco si autopone, guadagnando il proprio spazio grazie a un attento e costante lavoro, fatto talora di acceso interventismo talaltra di eburneo isolamento. Fu la strategia di D'Annunzio e di Pirandello, di Gadda e di Ungaretti; è stata quella di Montale (con la sua continua riflessione sul ruolo del poeta: si veda il saggio di Gorni nel volume Einaudi; con la sua lenta deflessione verso il quotidiano: si veda ibidem il contributo di Stefano Giovanardi) e di Calvino (che "non è stato solo canonizzato da altri; si è lui stesso, per così dire, imbozzolato con il filo dell'autocommento", Carla Benedetti) e di Pasolini (nel suo modo vitalistico e vaticinante). Questi scrittori hanno costruito - giorno per giorno, a pezzo a pezzo - un loro personaggio e una loro maniera, trasformandosi in miti letterari che ancora oggi riscuotono tributi, ma inevitabilmente vedono esposta la loro immagine agli strali dell'iconoclasmo (così Baldacci contro Montale e Calvino, così Merola contro Gadda, e certo non sono mancati, ultimamente, gli attacchi a Pasolini).
Accanto a questi fabbri del loro destino, ci sono i "casi", che dell'ondivaga fortuna subiscono la bifida origine di vox media: il "caso" è tale perché si presenta improvviso, isolato, ma soprattutto per la sua natura intimamente controversa. Ci sono casi editoriali e casi critici (anche clinici, stando a certe letture psicoanalitiche: si pensi al Tozzi di Debenedetti). Si parlò a suo tempo di "caso Svevo", poi di "caso Morselli" (qui peraltro poco rappresentato), ma il caso novecentesco per antonomasia rimane Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa, tale addirittura da aver "segnato un discrimine nitido, nello svolgimento culturale della seconda metà di questo secolo, in Italia" (Sanguineti). E come caso si può considerare, stando al saggio di Maria Corti, anche il (presunto) realismo di Alberto Moravia; uno scrittore che ha già esaurito la prima curva sulla sinusoidale del successo e - dopo aver toccato qualche tempo fa valori minimi - sta ora risalendo la china. (Diversa la sorte di Elsa Morante, poco frequentata da questi bilanci, ma ormai oggetto di un apprezzamento quasi unanime: Menzogna e sortilegio è per Mengaldo "uno dei maggiori romanzi del secolo".)
Rimanendo alla declinazione dei casi, spicca - in questi volumi - l'assenza quasi completa di D'Arrigo, e con lui di Manganelli, due autori che la Storia generale della letteratura italiana (recensito nella pagina a fronte) ha invece promosso al rango di classici. Il fatto è che di tutte le filiere individuate in questi saggi (spesso coincidenti con tradizioni regionali nate nel secolo precedente), quella più discussa è proprio la linea espressionistica. Sarà che "oggi tira aria avversa a Contini" (Mengaldo) e favorevole a Croce, ed è proprio "su questo punto capitale che Contini si distacca da Croce e imposta una vera e propria reinvenzione della Tradizione italiana del Novecento" (Roberto Antonelli); sarà che è ancora vicino il tempo in cui questo gusto veniva "unilateralmente imposto anche ai lettori comuni dalle parole d'ordine neoavanguardiste" (Merola), ma la tendenza prevalente è quella a relegare il fenomeno avanguardia nella prima metà del secolo, rifiutando qualunque riconoscimento alle esperienze tardonovecentesche di manipolazione linguistica e stilistica.
Come voleva Savinio, citato da Sanguineti, l'Italia ha una natura "antisismica": "non è terra di trasformazioni" e "rimane fedele ai modelli"; non bisogna quindi stupirsi se lo sperimentalismo "nel quale la ricerca del Novecento letterario italiano (...) si conclude" (Asor Rosa) è quello strutturale di Calvino. La sua capacità di conciliare metaracconto e affabulazione in una scrittura "cartesianamente chiara e distinta" e la sua personalità di "intellettuale profondamente laico, forte di una sua lucidità imperturbabile, estraneo ai vizi tradizionali del letterato" (Spinazzola) lo rendono un'ideale sintesi hegeliana, in grado di sussumere le varie opposizioni dialettiche: non solo quella fra tradizione e innovazione, ma anche quella fra letteratura di cose e letteratura di parole, fra impegno e disimpegno, fra ideologia e individualismo (tanto che quando Asor Rosa parla di una sua "ideologia protestantica" viene da pensare un calvinismo letterario come religione di Stato). La sua opera, e in particolare l'idea di letteratura che ha consegnato al prossimo millennio nelle cosiddette Lezioni americane, sembrano essere in grado di riequilibrare ogni volta i due piatti della bilancia. L'equilibrio, d'altra parte, è la virtù dei classici, e in fondo il postmoderno, con la sua apparente rinuncia all'autorialità e la sua invadente mania citazionista, si presenta come una sorta di classicismo non selettivo, una poetica dell'imitazione che accoglie tutti i modelli ma non crede in nessuno, che fa di ogni testo un'auctoritas ma l'ossequia attraverso l'ironia, ovvero - etimologicamente - la dissimulazione, gli infingimenti, le ficciones.
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