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Umberto Fiori in “Chiarimenti” ha scritto versi dominati dalla volontà di illuminare con ossessiva insistenza, disarmante caparbietà, alcuni aspetti del reale. Fiori si interroga, ad esempio, su Il discorso e la voce, sulle parole che usiamo e sono monche, inespressive, fuorvianti: “Sono pronte, le parole. / Gli stanno in faccia / e non dicono niente”. Sui discorsi che scambiamo tra amici, e rimangono vuoti e futili, quando non addirittura offensivi, aggressivi: “Anche stasera / ognuno ha detto la sua / senza che poi nessuno, / alla fine, / riuscisse a chiarire niente. / Ma solo chi ha parlato veramente / può veramente essere frainteso”, “Dirsi quelle due cose, / con le persone, / più ci si tiene più / sembra impossibile. / A volte si sta lì davanti a loro / come i parenti al cimitero / coi fiori in mano / davanti ai marmi, alle foto”. Questa situazione di incomunicabilità diventa disagio esistenziale, incapacità di riferirsi non solo agli altri, ma anche a se stessi: “E intanto se lo sente, il mondo, / proprio qui, / sulla punta della lingua. / Una cosa su tre / fa un verso, gli manca il termine. / Zitto, però, non ci sa stare”. Se le parole tradiscono, deludendo chi le ascolta e chi le dice, anche i pensieri e i gesti non corrispondono mai alle intenzioni, la realtà esteriore rimane incompresa e incomprensibile, non definibile, non riportabile a coordinate precise: “Giù, giù, sul fondo / si va, dove le cose / ‒ tutte – sarebbe uguale / se non ci fossero mai state”. Chi scrive rimane stranito, estraneo, incapace di definirsi in un ruolo preciso: “Si sta col cielo, qui, / e con la terra, / come per strada i piatti / col frigo e le piante grasse / per un trasloco”, “Sentivo, ora, che loro – alle mie spalle ‒ / erano fatti della pasta del mondo, / solida, chiara. E io, di niente”, “Tre case / stanno là, sopra il ponte, / belle come un saluto. / Solo a loro io bado / qui, con le mani in mano, / con l’occhio del pastore / che da lontano conta le sue capre”.
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