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recensioni di Janigro, N. L'Indice del 2000, n. 12
"Chi dice umanità cerca di ingannarti". Così suona la massima che, nel 1927, Carl Schmitt prende a prestito da Proudhon per descrivere il processo di disumanizzazione dell'avversario necessario allo Stato imperialistico per muovere guerra in nome di interessi universali. Né più né meno di quanto - sostiene Danilo Zolo - accade oggi: qualificare l'azione bellica come "intervento umanitario" è un mezzo di autolegittimazione, la motivazione etica è solamente un'arma in più per persuadere che la guerra che si conduce sia quella "giusta". E intorno al motto, che funge da Leitmotiv, Zolo intreccia e ramifica la sua critica alle ragioni ufficiali dell'intervento dei diciannove paesi della Nato, nella primavera del 1999, contro la federazione jugoslava. A quella che considera una troppo debole credibilità della spiegazione umanitaria - difesa dei diritti dei kosovari minacciati da genocidio - Zolo contrappone una visione realistica che, riprendendo e sviluppando le tesi dei suoi lavori precedenti, analizza gli effetti di lunga durata dello Strike against Yugoslavia sulle relazioni internazionali. Una guerra "nuova" (Mary Kaldor) e "virtuale" (Michael Ignatieff), in un mondo nel quale il conflitto non è più congelato dai do ut des della guerra fredda e gli schieramenti appaiono scombussolati dai processi della globalizzazione.
Sono quattro, nell'approccio olistico di Zolo, i campi d'interesse che aiutano a comprendere le ragioni dell'attacco della Nato. Il casus belli del Kosovo è stato, per gli Usa, un mezzo per ribadire la superiorità politico-militare sull'Europa e un modo per rimanere, ora che il Muro non c'è più, sul suolo del vecchio continente. Si sarebbe trattato dell'ultima avventura d'Oriente, per spartirsi gli impervi Balcani, di una Santa alleanza allargata, questa volta, anche agli Stati Uniti. Un'altra motivazione presente è ovviamente quella di tipo economico, la lotta, insomma, in funzione antirussa ma non solo, per il controllo dei corridoi con l'area caucasica e caspica. Ma l'evento bellico ha rappresentato anche un banco di prova per la Nato, in via di trasformazione da organo difensivo, qual era all'epoca della guerra fredda, in istituzione sovranazionale al cui interno sperimentare un nuovo modello di rapporti. All'unica superpotenza il "federalismo egemonico" garantisce supremazia e stabilità, permettendole di fronteggiare le insidie regionali di un sistema mondo unipolare (e quanto sia ardua la stessa elaborazione teorica in grado di sostenere una simile idea di egemonismo è dimostrato dalle diverse posizioni del dibattito americano che Zola riporta). Sono queste, secondo l'autore, le "dinamiche di lungo periodo del potere globale", che vedono la proiezione dell'egemonia atlantica in direzione euroasiatica con la Nato (scavalcate le Nazioni Unite ed esautorato il Consiglio di Sicurezza) in funzione di "braccio armato", addirittura con funzioni di tipo giudiziario. Infatti il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha utilizzato (e ancora utilizza) i militari Ifor, Sfor, Kfor come agenti di polizia giudiziaria.
Sovranità e ingerenza, diritto internazionale e legge locale, guerra umanitaria e pacifismo istituzionale, diritti di cittadinanza e diritto all'autodeterminazione dei popoli: sono i termini del dibattito politologico e giuridico, storico e storiografico, etico e di politica internazionale che accompagnano la disgregazione jugoslava e le successive guerre balcaniche. E sono riproposti dalla caduta di Milosevic.
Questioni che sono ancora tutte lì, sul ponte di Kosovska Mitrovica, pronto a trasformarsi in campo di battaglia, nelle interminabili sedute del Tribunale dell'Aia, i cui testimoni, a casa, in Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina saltano in aria, negli improvvisati luoghi di detenzione del Kosovo dai quali i prigionieri facilmente scappano (i morti del dopoguerra nella provincia sono più di mille), in costituzioni che non garantiscono né i diritti civili né le identità nazionali, in sovranità triplicate (come in Bosnia), o dimezzate come quella di Belgrado. Che ha "perso" il Kosovo, il cui status rimane ambiguo, che non ha più un rapporto formalmente definito nemmeno con il Montenegro, mentre anche la Vojvodina scalpita. Così, della Jugoslavia nata a Versailles e rinsaldata nel periodo comunista da un'abile alchimia di "comunismo nazionale", sono scaturiti tanti Stati quante sono le maggiori nazionalità, che, dopo gli sconvolgimenti bellici, corrispondono a territori meno mischiati, e ripropongono, in un caos di norme e istituzioni, i problemi storicamente irrisolti dell'area. E mi pare stia proprio qui uno dei punti meno convincenti dell'argomentare di Zolo, che affronta in modo molto ben documentato il "groviglio balcanico" ma sorvola forse un po' troppo velocemente sulle cause interne della disgregazione jugoslava.(E forse crede troppo alla pax americana in un mondo globale, appunto, in cui mutano mezzi e forme della sovranità.)
Non esisteva, infatti, né esiste, una situazione relativamente pacificata dove, per impulso e mira occidentali, vengano scatenati conflitti e "pulizie etniche". Il conflitto inter-jugoslavo ha sufficiente carburante locale per prendere fuoco, e anche gran parte delle armi necessarie, almeno all'inizio, per scatenarsi. Sono semmai le relazioni pericolose fra quanto accade "dentro" e quel che avviene "fuori" a rendere ancora più complicati i giochi delle parti in campo. Ma, per fare un solo esempio, anche chi è stato contrario all'intervento della Nato non può non porsi il problema di quel che sarebbe accaduto. Perché, nella provincia del Kosovo, dopo un decennio di resistenza non violenta e dopo Dayton, le premesse di una carneficina c'erano tutte. E non credo proprio si possa parlare di "guerra civile"(se non, forse, per poche settimane), per definire una situazione molto più simile all'apartheid. Il che naturalmente non significa che anche la storia del Kosovo non abbia visto, e non veda tuttora, rovesciamenti fra carnefici e vittime - negli anni ottanta gli albanesi sono vittoriosi, poi diventano no men. Certo, da un certo punto in poi prevale il decisionismo americano, in particolare quello di Madeleine Albright, che toglie a Milosevic ogni spazio alla trattativa con gli occidentali; ma insistere troppo sulle componenti terroristiche dell'Uck, sugli interessi malavitosi, sul fatto che i kosovari sono maghi del traffico illecito (se è per questo lo erano anche nella Jugoslavia comunista!) porta a minimizzare ciò che il Kosovo ha subito. Si riproduce l'ormai solita contrapposizione.
Chi minimizza nutre sospetti sugli esecutori del massacro di Racak (come già sulle bombe del mercato di Sarajevo), si avvita in una reiterata quanto probabilmente non voluta operazione di revisionismo storico in tempo reale, e ci ricorda che i croati sono stati ustascia, gli albanesi filofascisti, i musulmani... e infine condanna naturalmente ogni forma di intervento. Certo, e i serbi sono stati cetnici, ma anche partigiani - come del resto è avvenuto per tutti gli altri popoli della ex-Jugoslavia. Ma "il passato che non passa" purtroppo non giustifica le stragi di oggi, né rende meno tragica "la sanguinosa fiaba serba".
Chi invece insiste sulle vittime civili delle carneficine parla sempre di genocidio (un concetto che durante queste guerre ha avuto una storia ancora tutta da scrivere) e auspica bombe a grappolo. Mi chiedo se sia possibile riconoscere le vittime - senza partecipare anche noi osservatori alla macabra conta balcanica, dove il fattore numerico serve tanto all'"ingegneria demografica" quanto alle truffe elettorali - e, nello stesso tempo, credere in vie alternative all'intervento militare. Della Nato o di altri. Diversamente, temo, le spiegazioni "realistiche" approdano, seppure con intenti diversi, alla Realpolitik. Quella dei Dini, dei Romano, dei Santoro. E rimane un mistero come mai chi, sulla questione serba, vuole "pensare diversamente" non riesca a trovare altri ispiratori!
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