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È attraverso l'analisi di alcuni interventi di Leonardo Sciascia e del processo a Giulio Andreotti che si cerca in queste pagine di illustrare la natura profonda della mafia, per certi versi aggiornando il saggio omonimo pubblicato da Gaetano Mosca oltre un secolo fa. Lupo inizia stigmatizzando la facile caccia al colpevole e richiamando i "dubbi salutari" che Sciascia e Jannuzzi sollevarono, nel corso di polemiche infuocate, circa l'opportunità di elevare Tommaso Buscetta a icona del movimento antimafia. Se però Sciascia, che fu sempre tra i pochi a battersi per promuovere una visione nazionale della mafia (fenomeno la cui solo presunta "sicilianità" viene trattata nel saggio conclusivo), ebbe un ruolo fondamentale come coscienza critica nella lotta alla stessa, non sempre le sue posizioni furono condivisibili: si pensi allo "scriteriato affondo contro Borsellino". Per l'autore, anche le considerazioni sul processo Andreotti vanno integrate con una nota a margine: Andreotti mente senza dubbio, infatti, quando dichiara di non sapere cose che gli sono sicuramente note, sicché la sua posizione è oggettivamente critica. Non lo suggerisce forse la sentenza finale del processo, che divide in due fasi la storia dei suoi rapporti con le cosche, una prima di comprovata contiguità (fino al 1980), una seconda di sostanziale estraneità? I due capitoli sul processo Andreotti, scritti nel 1996 e nel 2006, offrono un approccio puramente storico a un tema che ha diviso gli italiani: la conclusione cui Lupo giunge è che Giulio Andreotti non possa non aver avuto una colpevole consapevolezza delle collusioni mafiose di non pochi fra i suoi luogotenenti in Sicilia.
Daniele Rocca
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