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Nella profluvie di romanzi gialli e noir che inonda le librerie italiane, forse c'è ancora spazio per romanzo non poliziesco ma che narri ugualmente un'inchiesta, e che lo faccia con il passo avvincente del romanzo d'avventura: genere che, quanto a fascinazione per il lettore, nulla ha da invidiare al "giallo". Ne siamo più che convinti dopo aver letto Le cere di Baracoa, romanzo che ci consente di riassaporare, otto anni dopo Musica per lo zar (cfr. "L'Indice", 2002, n. 5), il passo elastico e la scrittura elegantissima del parmense Davide Barilli. Che è un grande narratore di storie padane, capace come pochi di fondere il sapore orale da cui si origina la narrazione ("Cavernoso fu il dire della gente sulla sorte di Josefo") e la coltivata prassi dello stile letterario, talvolta iperletterario, che non disdegna tinte borgesiane ("Ma Celso dei Gabbi, giunto ai settantacinque anni, non teneva conto di queste concentricità").
Barilli ci racconta stavolta due storie: una è quella della ricerca condotta dall'io narrante (identificabile con l'autore, anch'egli giornalista) nella Cuba di oggi, sulle tracce di Valdemaro dei Gobbi, un italiano partito dalla Bassa nel 1944. Da allora l'unico segno di vita è stato una cartolina, con un indirizzo: Valdemaro potrebbe essere morto a Cuba oppure sopravvissuto e vivente altrove o altrove defunto, chissà.
Disponendo di quest'unica, labile traccia, l'io narrante si mette in cerca di Valdemaro: ne ricava la quasi certezza che egli abbia esportato oltremare il segreto per fabbricare candele di prodigiosa durata e intensità; una cereria, peraltro, era il luogo che accolse, appena usciti dall'orfanotrofio, il ragazzo Valdemaro e i suoi fratelli: Celso, Medardo e Oreste. Dopo la partenza del maggiore, e dopo la morte dei più piccoli uccisi da un certo Bonardi nelle convulse vicende che Claudio Pavone ci ha insegnato a chiamare guerra civile , anche Celso è partito per l'America e vi è rimasto per molti anni, forse senza ritrovare il fratello, adattandosi a vivere come infermiere per indios e avventurieri e non rinunciando al progetto di vendicarsi di Bonardi. Torna infatti periodicamente in Italia e, alla fine, quando sono entrambi vecchi, Celso uccide con grande semplicità Bonardi: il quale, dal canto suo, sembrava non aspettasse altro che l'espiazione terminale di un delitto di cui, forse, fu responsabile solo parzialmente.
Questa di Celso e della sua vendetta è la seconda storia principale narrata nel romanzo, anch'essa pazientemente ricostruita dall'io narrante che, cronista giudiziario, ha conosciuto l'anziano omicida vendicatore (alla base di tutto c'è un autentico fatto di cronaca, opportunamente reinventato da Barilli); ma altre vicende minori si affacciano e quasi ogni personaggio incontrato dall'io narrante si abbandona a digressioni memoriali che finiscono per aiutarlo nella ricerca oppure per depistarlo. E l'andirivieni tra memorie remote della Bassa e realtà odierna di Cuba ci dimostra quanto siano sottili le differenze tra i due luoghi: si trattava, per Barilli, di fare i conti con due mitologie ampiamente rappresentate nell'immaginario letterario e cinematografico, quella della guerra civile in Italia e quella della Cuba rivoluzionaria; di entrambe l'autore, senza proclami né rivelazioni clamorose, ma con precisione e rara onestà, ha saputo mostrarci i risvolti grigi, perfino deprimenti.
La Cuba narrata nel romanzo è quella orientale di Baracoa (la città più antica dell'isola), Moa, Gibara: cittadine povere, polverose, tutt'altro che seducenti, dove l'eco della rivoluzione non risuona da tempo e il rum è una micidiale bevanda per poveracci che non debbono né possono pensare. Non compare L'Avana, il Che è appena nominato e così Compay Segundo e gli altri vecchietti di Buena Vista Social Club; si affacciano invece dalle pagine del romanzo personaggi storici più oscuri, ma diversamente fascinosi: lo scacchista Capablanca caro a Gesualdo Bufalino; una soprano russa fuggita alla rivoluzione del '17 e invaghitasi di quella dei barbudos; l'unico italiano che seguì Castro e Guevara nella loro avventura rivoluzionaria; perfino un bimbo di nome Italo Calvino.
Non meno inquietanti i luoghi italiani, non nominati ma situabili tra la Bassa e l'Appennino: li abitano sì personaggi che fanno ripensare a quelli da "realismo magico" di Musica per lo zar,ma anche figurette da spicciola cronaca locale, che trascinano un'esistenza senz'altro scopo che non sia l'arrivo della morte.
Eppure, si diceva, questo è un romanzo d'avventura: ne ha l'abbondanza di toni e personaggi, di panorami e lessico esotico; ma avventura, in questo caso, è innanzitutto avventura intellettuale, avventura della conoscenza: scoperta, pedinamento, inchiesta. E non sorprende l'apertura di taluni squarci metafisici in un romanzo che accumula suggestioni e motivi ben diversi, li porta a uno Spannung vertiginoso e volutamente li abbandona senza soluzioni esplicite: perché, come sostiene l'autore, la sua intenzione non era quella di fornire risposte ma di porre domande. Luminose e durature come le candele di Valdemaro, come le cere di Baracoa.
Giuseppe Traina
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