La fenomenologia storica stessa della Svizzera, con i suoi quattro idiomi ufficiali (vi comprendo con trepidazione il lumicino pericolante del romancio), e in più con la devianza identitaria di quella sorta di dialetto nazionale (il "Mundart") vigente fino alla City di Zurigo, questa fenomenologia, dicevo, presenta al lettore molte ghiottonerie e contemporaneamente altrettanti tranelli. La curatrice, che firma anche le traduzioni più riuscite, ci propone un'introduzione importante quanto dovuta. Forse nessun altro paese d'Europa potrebbe presentare altrettanta complessità: quattro lingue nazionali, una storia tutta propria dentro un Novecento che le è stato anche motivo di orgoglio e di colpe, autodifesa che è contemporaneamente una forma di contraddizione e di apertura, minoranza divenuta via via un fine privilegio, stato-cuscinetto potente e corteggiato, unità centripeta talvolta prigioniera di sé, rifugio politico, patria di lavoro. La Svizzera è stata anche questo, con il valore aggiunto del paese dotato di una fitta e alta immigrazione letteraria, nel nostro caso in versi. Tutto bene, dunque? Rimarrebbe però da spiegare come mai, dentro questa moltitudine alta e variata, il tema della morte la faccia un po' da padrone, magari mascherandosi dietro la condizione di una situazione carceraria interiore. Che sia, questa, la qualità interna al testo stesso? Qualcuno è tentato di pensarlo, il genere in versi è un rilevatore storico sensibilissimo e due guerre vissute da spettatori non possono avere mascherato lo scenario del lutto. Ma qui c'è un secolo giusto, tra Hesse e il quarantenne Urweider, e l'Europa ha visto accadere di tutto, tanto che probabilmente da quella specola neutrale di cui stiamo parlando è stato possibile riflettere, rimanendo illesi nei corpi, sui gradi degli orrori circostanti, compresi gli orrori di oggi, delle guerre mascherate dell'Europa finanziaria attuale. Non tutto, nei termini di ciò che s'intende con lo sgraziato nome di "traduttologia", sembra funzionare a puntino in questa peraltro pregevole, e in ogni caso decisamente utile, fatica coordinata da Annarosa Zweifel Azzone. Coordinata, tengo a precisare, con competenza e correttezza evidenti: l'inclusione di un terzo o quasi di presenze femminili le fa certamente onore. Anche se, appunto, sarebbe stato bene tenere sotto controllo certe ingenuità che mirano a ricostituire una sorta di improbabile "poetese" nella lingua d'arrivo, talvolta con l'ausilio di rimari deviati, di costrutti sintattici mimetici e auratici, e così via. Certo non siamo ignari delle difficoltà che s'incontrano in un territorio di questo tipo, dove si è costretti a cercare dei punti di equilibrio tra la ricreazione libera e ariosa e un certo "operaismo" di servizio. Ma se intendiamo leggere documenti che sfatino il mito dell'isola felice elvetica, godiamoci con concentrazione questi versi: si snodano, appunto, dal tardoromanticismo alle felici sovversioni zurighesi del Cabaret Voltaire in piena (prima) guerra mondiale, dall'esistenzialismo di Erika Burkart allo sperimentalismo di Frisch e Dürrenmatt, dall'impegno etico-civile alle tracce di un'attuale poesia applicata ad altre forme di persuasione ludica. Un solo appunto: non è facile comprendere le ragioni dell'esilità dei riferimenti critici individuali, a fronte di veri e propri saggi destinati a rare personalità ritenute particolarmente importanti. Avremmo auspicato un maggiore equilibrio sotto questo aspetto. Giorgio Luzzi
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