L'incontro fondamentale di un'esistenza può consumarsi anche attraverso la lettura di un libro, la visione di un'immagine, la scoperta di un abisso che non trova un lessico adeguato alla sua descrizione. La scrittrice francese Dominique Sigaud, giornalista di guerra e profonda conoscitrice dell'Africa, percepisce quella increspatura impercettibile, ma irrevocabile a dodici anni, quando, per la prima volta, vede in un film i corpi scheletrici sopravvissuti alla Shoah e quelli defunti, accatastati gli uni sugli altri. Qualche anno più tardi incontra, attraverso le parole di Gitta Sereny contenute nel libro In quelle tenebre, Franz Stangl, membro inappuntabile della Gestapo, sovrintendente e poi luogotenente del programma di sterminio dei disabili T4, comandante dei campi di sterminio di Sobibór e Treblinka. Arrestato nel 1967 dopo una lunga latitanza in Brasile, viene estradato in Germania, dove muore in carcere per un arresto cardiaco. Un incontro terribile, che smuove nelle fondamenta l'idea stessa dello stare al mondo e per descrivere il quale, senza cadere nella retorica o nella semplificazione, l'autrice inventa un lessico inedito. Né solo guerra né solo Shoah, bensì werra, un'antica parola francofona che racchiude il duplice significato di disordine e scandalo, il disordine della conflitto armato e lo scandalo dell'annientamento totale. Scova quindi un'immagine semplice, tratta dal mondo delle fiabe, per descrivere il male che si traveste da dragone dalle mille teste, in grado di rigenerarsi dopo decenni di distanza da werra in Ruanda, nei Balcani, nelle prossimità del nostro quotidiano, grazie alle tante x che rinunciano alla propria responsabilità individuale. La promettente impostazione sulla figura di Stangl nel rapporto con se stessa, sembra però tradire Sigaud poco prima della metà del suo saggio, quando cade in una ripetizione ripiegata su se stessa delle sue intuizioni iniziali. Quasi una terapia psicanalitica individuale che tradisce l'iniziale valenza universale del suo discorso. Donatella Sasso
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