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Le narrazioni in versi di Nino De Vita sono ormai una "bella bandiera" di Orecchio acerbo. Continuando il felice connubio iniziato con Il cacciatore (2006) e proseguito con Il racconto del lombrico (2007), questo meritorio editore di "libri per ragazzi che non recano danno agli adulti" e di "libri per adulti che non recano danno ai ragazzi" propone ora La casa sull'altura. Apparso nel 1994, in una plaquette fuori commercio, il testo è poi entrato nelle due edizioni dei Cùntura (quella, privata, del 1999, e quella di Mesogea, del 2003), sedimentando in tutti i passaggi varie modifiche, sia all'originale in dialetto che alla traduzione in lingua (se ne registrano anche nella più recente epifania: soprattutto nella versione italiana, qui offerta in prima battuta ai giovani lettori).
La casa sull'altura ('A casa nnô timpuni) partecipa dell'ambiente dei Cùntura, contrassegnato dal fatto che l'elemento fiabesco degli animali protagonisti (e, spesso, parlanti) si radica in un luogo realissimo (la borgata dell'agro marsalese in cui l'autore è nato e, da sempre, vive) che conferisce alle storie uno spessore e una concretezza inconsueti alle favole tradizionali. Questa disegna la parabola di una "casetta abbandonata" che diviene ricovero o meta saltuaria di varie creature ed è invasa dai ragni e dai tarli, "che tenaci rodevano / e rodevano". Questa lenta rovina sembra per incanto arrestarsi quando nel luogo arriva un ragazzo in fuga da chissà cosa e ne fa il proprio rifugio, diventando a poco a poco per gli altri una presenza familiare e attesa, un'amicizia ricambiata, portando un'animazione, quasi un'euforia che giunge a inibire il lavoro da "senzacristo" dei tarli. La loro opera distruttiva riprenderà lena con la scomparsa del misterioso ospite, che getta nello sgomento la piccola comunità zoologica raccolta in quel recinto e prelude al crollo finale: "Precipitò il tetto, rovinarono / le mura di pietra / e fango impastato / a paglia".
Non siamo, come si vede, in Arcadia; l'idillio, se c'è, è una breve tregua del dolore senza nome, della più cupa desolazione. Chiamato a illustrare il racconto, Simone Massi tralascia senz'altro il pallido verde inaugurale "di ulivi, fichidindia, / rovi ed erba selvatica, / macchie di lazzeruolo", per volgersi a un bianco e nero fatto di linee intrecciate e di macchie dense e invasive, che rende a meraviglia i carcerari intrichi, i terrori emanati da una terra dura e impietosa; mentre il taglio cinematografico delle immagini (che deriva da una lunga milizia nel film d'animazione) viene a combaciare con una diegesi tutta apici e scorci, dove quel che si tace è altrettanto eloquente di ciò che si manifesta.
Si capisce come di questa atmosfera possa legittimamente darsi una lettura sociologica, come quella fornita, a congedo del libro, da Goffredo Fofi, che vi vede il requiem di un mondo contadino "scomparso o implacabilmente disumanato e mutato", l'"abbandono della campagna come crimine e lutto": "Il bambino che può salvare, il bambino divino, il bambino del mito è fuggito via, ha voltato le spalle alla natura ed è andato a perdersi anche lui sulle autostrade, nelle fabbriche, nelle periferie, nei supermercati della metropoli. L'attesa è ormai attesa della fine, la fine di una civiltà e il ritorno a una selvaggità che si esprime nel trionfo dei tarli e nel lutto degli animali che con l'uomo avevano imparato a convivere".
Antonio Pane
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