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Una narrazione sull'essere che è sempre essere con gli altri, sul nascondersi, sul ritornare sui propri passi e scoprire ciò che si sapeva e non si sapeva di sapere. Libro da leggere e rileggere, scoprire riscoprire. E la trama intrigante non guasta.
Denso e leggero, profondo e agile, semplice e itrigato... bello!
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Walter Benjamin distingue la memoria "eternante" del romanziere, "dedicata a un solo eroe, a una sola traversia, a una sola vita", da quella "dilettevole" del narratore, tesa a salvare "i molti fatti dispersi", a fornire, cioè, grazie al ricordo, la trama del loro concatenarsi e disporsi in un ordine. Il narratore, insomma, trasforma le singole storie narrate in esperienza collettiva perché condivisa da tutti "coloro che ascoltano"; la sua arte di narrare storie, aggiunge ancora Benjamin, "è sempre quella di saperle rinarrare ad altri".
Credo che l'ultimo libro di Giulio Angioni partecipi, per certi aspetti, dell'arte descritta da Benjamin.
Tema del romanzo è il ritorno di Vitale, in fuga da un futuro minaccioso, in Sardegna a Fraus, suo paese natale; ma la difficile arte del ritorno determina conseguenze inattese nel rapporto del protagonista con il passato e la figura paterna, da un lato, e, dall'altro, con un'identità faticosa e costantemente insidiata perché in bilico tra lealtà differenti e "appartenenze che sembravano in contrasto".
A lettura conclusa, però, resta l'impressione che protagonisti siano, invece, gli abitanti di Fraus - tratteggiati con garbo da Angioni - chiamati a raccontare le loro disperse e molteplici storie e a testimoniare l'intreccio tra la quotidianità oscura, dolorosa, spesso anche triviale e le "ingiurie della storia". Quest'ultima assume i tratti di una modernizzazione ambivalente perché carica delle promesse della rinascita e nel contempo, soprattutto, distruttrice non solo del paesaggio urbano, dove "case senza storia" affiancano, mute, le vecchie case che "dicono troppo", ma persino dei legami primari di solidarietà. Solo la palma piantata nel cortile della casa d'infanzia di Vitale continua a "fare fedelmente il suo dovere", a rappresentare, cioè, la memoria individuale del protagonista e collettiva della comunità "con quel segnare il tempo a strati lì sul tronco con i tagli successivi".
In altre parole, il punto di vista del protagonista non si impone a dispetto della pluralità delle voci del mondo, bensì coesiste con queste, accetta di essere uno tra molti, persuaso che la verità - che non chiama mai in modo aperto, ma solo per ammiccamenti - sia il risultato di questa molteplicità, così come la bellezza di un coro risiede nel concorso paritario delle singole voci che lo animano: cosa, del resto, che Vitale sa benissimo visto che lui, i cori, li dirige per professione.
Il progetto di schivare il futuro, di differirlo, addirittura "dimenticarlo" e, contemporaneamente, il "rifiuto di fare i conti con il passato" vengono progressivamente contraddetti dall'esigenza di verità che, seppur confusamente, è imposta dal paese. L'intrecciarsi via via sempre più fitto di voci, ora amichevoli ora, persino, minacciose, e il "brusio dei ricordi" spingono Vitale, suo malgrado, però, - perché è "brutta la sensazione del rinculo contro voglia" - a prendere atto che il padre non è morto di morte naturale ma è stato assassinato, e la vita trascorsa con lui, tra estraneità e desiderio di imitarlo, costituisce il "corpo del reato". Non solo, procedendo nella ricerca, l'immagine paterna appare sempre più sfocata, quasi deformata dagli "occhi degli altri" e quindi irriconoscibile. Per Vitale, l'incremento di consapevolezza e l'improvvisa rivelazione di nessi fino ad allora ignorati sono sempre segnati dal doloroso riconoscimento della propria inadeguatezza e lo sguardo disincantato, talvolta rassegnato alla comodità e alla normalità di un destino che è bene non esplorare, si sfalda di fronte alla pretesa della verità di essere riconosciuta, alla "resa dei conti" corale richiesta da Fraus.
La casa della palma assume, quindi, la struttura del romanzo giallo, benché si tratti di un giallo singolare, dal momento che chi dovrebbe indagare non solo non indaga, ma ostinatamente respinge la ricerca stessa della verità, sia la verità su sé, la malattia dalla quale sta fuggendo, sia quella sul padre. Il rifiuto caparbio di "chiamare a rapporto il passato", di riannodare retrospettivamente i resti di sé riposa, da un lato, sulla persuasione della vanità della ricerca, destinata a mancare sempre il suo oggetto, poiché "all'indietro con il tempo tutto si allontana", dall'altro, sulla convinzione espressa dal protagonista che, a un certo punto della vita, è umano "avere un padre morto", per cui "ci si rassegna" e "finisce che ci pensi con fiducia". È un evento, quindi, da accettare perché è parte dell'ordine naturale, scandito dalle "alternanze ritmiche del tempo", e perché il passato non è in grado di dispiegare i propri effetti sul presente, divenendo, così, un episodio in sé concluso e definitivamente archiviato.
Ma, come ricorda Gigi, amico d'infanzia e figlio di "milite ignoto", "uno deve saperlo come è morto il proprio padre e capire il perché": solo il risalimento a ritroso nel tempo, per quanto dolore comporti, consente di fare compiutamente esperienza di ciò che si è stati e di ciò che si è diventati, ovvero di riconciliarci con quel passato che non scompare, ma permane incapsulato nel presente, finché non venga riconosciuto e compreso; anzi, quanto più profonda è stata la sua rimozione tanto più distruttivo e carico di sofferenza sarà il suo ritorno.
Il libro, allora, testimonia la fatica di questo percorso che ruota attorno alla domanda su chi sia stato veramente Nicodemo, il padre di Vitale, domanda fondamentale per l'esigenza del figlio di "ritrovare ciò che è indispensabile" e per quella della comunità di rileggere "contrappelo" la propria storia recente, ovvero quell'"illusione della rinascita" incarnata da Nicodemo e che, forse, ha costituito uno dei moventi del suo omicidio.
C'è, da ultimo, un'intenzione profonda che rende ancor più affascinante il lavoro di Angioni e credo riguardi il rapporto tra narrazione e vita, in particolare con ciò che rimane dell'"ansia di capire ricordando" oppure "dei miliardi e miliardi di conati di resistenze all'eternità del nulla", quand'anche "la fine non spiegasse un bel niente, ci riesiliasse per sempre di mistero in mistero". Si potrebbe, forse, azzardare che una vita "riuscita" è una vita narrabile, quando persino il dolore, messo per iscritto, si riassesta "in qualche forma di equilibrio", e la scrittura, nonostante e contro "il senso della futilità di ciò che dice il mondo", riesce a trattenere le cose prima che scompaiano. Non a caso, la madre di Vitale, preoccupata della fatica del mondo, costretto a "sopportare tutto quello che sopporta, senza sprofondare", spera "che le cose, tutte quelle cose che pesano sul mondo, ma ci servono, potrebbero ammucchiarsi dentro i libri, in forma non pesante, senza più rischio di sprofondamento, ridotte a segni scritti".
Nessuna pretesa di esaustività, però, dal momento che "le solite lentezze e inconsistenze della vita vera" scombinano quest'ordine esile e revocabile. Nella vita, come è noto, le cose sono sempre "raffazzonate" e "non hanno capo né coda, ma errori e giravolte, nodi senza scopo e aspettative inappagate". In questa tensione - tra un senso fragile e mai definitivo, ma sempre ritessuto, tra le parole "già lì pronte, prima di ciò che servono ad indicare, così lo fanno nascere, se non è nato ancora" e ciò che costantemente le erode riconsegnandole al nulla da cui provengono - si apre lo spazio della scrittura e forse anche di un senso totalmente mondano ma, appunto per questo, interamente alla portata di ciascun singolo.
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