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La Negritudine, forse una delle più alte e lucide espressioni della Cristologia, dell'assoluto abitato dalla parola. La poesia dei sofferti, la teologia della vittima che ascolta e perdona, comprende e ama: "L’ontologia negro-africana è unitaria: l’unità dell’Universo si realizza in Dio attraverso il convergere di forze discendenti da Dio e ordinate in direzione di Dio. Questo spiega come il negro abbia un senso così sviluppato della solidarietà fra gli uomini e della loro cooperazione; piega la sua inclinazione al dialogo". Arte come utilità, manifesto, azione e grido diretto contro le rozze e sorde catene di egoismi perdenti. Notava non a caso Jean Paul Sartre: ”Il nero cosciente di sé si presenta ai suoi propri occhi come l’uomo che ha preso su di sé tutto il dolore umano e che soffre per tutti, anche per il bianco”. Senza scendere troppo in canali di stringente attualità ed essere di parte, ma senza nemmeno trascurare le logiche di un dramma immenso, in questi versi c'è la potenza di un canto senza tempo, le ere e gli sforzi di una condizione umana fra le più alte e nobili mai incarnate: "Ma basta aprire gli occhi all'arcobaleno d'aprile,/ e le orecchie, soprattutto le orecchie a Dio,/ che con un riso di sassofono creò il cielo e la terra in sei giorni./ E il settimo giorno dormì del grande sogno negro". Cori che inneggiano alla fratellanza e al senso della condivisione come suppliche elevate a cieli umani ostili, coscienti però che quel dolore è dolore del mondo tutto, strofa e verso di un mondo calpestato che non smetterà mai di intonare la sua grandezza: "Il canto vasto del sangue vostro vincerà macchine e cannoni,/ la vostra parola palpitante, i sofismi e le menzogne./ Senz’odio voi che ignorate l’odio, senza astuzia voi che ignorate l’astuzia./ O martiri neri, razza immortale, lasciate che dica parole che perdonano". Un libro assente da troppi anni nelle librerie, assente come certa sostanza bianca. Hanno già vinto loro, i neri tutti, con poche mosse.
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