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Scriveva Carlo levi che “nel mondo dei contadini non si entra senza una chiave di magia” (da “Cristo si è fermato ad Eboli”) e questo romanzo di Grazia Deledda, senza questa “chiave”, rischia di essere inaccessibile al lettore. Infatti, quest’opera, pubblicata nel 1913, è ambientata nel vecchio mondo rurale di Galtellì, in una Sardegna arcaica, pre-moderna, dominata da una religiosità caratterizzata da elementi, cristiani e pagani, che finiscono per mescolarsi conferendo una mentalità superstiziosa ai personaggi in esso presenti. Si racconta di una famiglia nobile ormai decaduta ed ulteriormente disonorata dal comportamento dell’ultimo erede maschio della Baronia: Giacinto. Il filosofo Pascal ha affermato che” L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante” e il titolo dell’opera allude proprio alla fragilità dell’essere umano, che si trova in balìa della tragicità della vita che, con i suoi tiri mancini, lo sferza come il vento, piegandolo e, a volte, riesce persino a spezzarlo. Altro tema fondamentale è quello dell’espiazione: il servo Efix, vero protagonista del romanzo, è un’anima tormentata da un grande senso di colpa. Sarà solo attraverso un personale viaggio di “redenzione” che egli riuscirà a riscattarsi, a perdonare sé stesso e a farsi perdonare dall’Onnipotente, ritrovando così la pace, quella eterna. In questo romanzo è possibile riscontrare alcuni elementi tipici del verismo, altri del decadentismo e persino alcuni del genere gotico. Ai tempi del ginnasio, veniva spesso citato dalla mia insegnate di Lettere ed oggi, a distanza di oltre trent’anni, l’ho letto con piacere. Le sono grato per aver seminato nella mia mente curiosa quel piccolo seme che oggi è germogliato.
Fa sempre effetto riprendere in mano questa opera, una delle prime voci femminili ad esprimersi con rilevanza nazionale. Raccomandato
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