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Anno edizione: 1998
Anno edizione: 1993
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recensione di Alatri, P., L'Indice 1994, n.11
(recensione pubblicata per l'edizione del 1994)
"È ridicola cosa il raccomandarsi alla benevolezza del pubblico, conviene meritarsela". È questa, forse, la frase saliente dall'indirizzo con cui, nel giugno 1764, Pietro Verri si rivolgeva ai futuri lettori del nuovo periodico, "Il Caffè" (frase che si è tentati di rivolgere oggi ai nostri governanti). Perché "Il Caffè"? Perché era questo il luogo privilegiato per l'incontro degli intellettuali, per le loro discussioni, per i loro progetti. E i progetti degli intellettuali erano progetti di riforme e di progresso, che d'altronde trovavano eco favorevole nella Vienna di Maria Teresa e di suo figlio Giuseppe. A parte le riedizioni settecentesche del "Caffè", del resto per lo più parziali, e a parte le raccolte antologiche di alcuni suoi articoli di edizioni integrali non ve ne furono più fino a quella curata nel 1960 da Sergio Romagnoli per l'editore Feltrinelli. Ma questa che ha appena visto la luce è la prima edizione critica del testo completo del periodico verriano, con la registrazione in apparato delle varianti, rispetto alla stampa, contenute nei manoscritti di trentuno articoli e con una corposissima appendice di testi e documenti inediti. E va quindi salutata come una grande e benemerita novità editoriale e storiografica, che ha comportato un enorme lavoro filologico e critico. Sergio Romagnoli ha redatto la vasta e dotta introduzione (""Il Caffè" tra Milano e l'Europa"), a Gianni Francioni si devono la "Storia editoriale del "Caffè"", il testo critico e l'apparato.
Come Romagnoli mette subito in rilievo, "Il Caffè", se ne consideriamo le date (dal giugno 1764 a tutto maggio 1765), fu, nella sua breve vita, il punto d'arrivo di un processo intellettuale destinato a segnare la storia culturale milanese ed europea. Nel giro di un biennio, sul tavolo della grande stanza a pianterreno del palazzo avito, dove Pietro Verri aveva il suo studio, passò la prima prova di Cesare Beccaria, "Del disordine e de' rimedi delle monete nello Stato di Milano", subito attaccato da Francesco Maria Carpani cui risposero i fratelli Pietro e Alessandro Verri con tre memorie, nel 1763, all'interno dell'Accademia dei Pugni, fondata e animata dagli stessi Verri con un piccolo cenacolo di amici intellettuali progressisti furono condotte a termine da Pietro Verri le "Meditazioni sulla felicità", le "Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano", l'"Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese"; l'anno stesso, nel marzo, si dette mano al "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria, che fu inviato a Livorno nell'aprile del 1764 perché fosse dato, anonimo, alle stampe; e altri scritti nacquero nell'ambito della stessa "officina" in quel torno di tempo. "Il Caffè" era dunque la forma conclusiva di una tenace ricerca per una libera comunicazione con il pubblico.
I compilatori del periodico furono principalmente i due fratelli Verri; tra gli altri collaboratori, nettamente minoritari, Cesare Beccaria, Giuseppe Visconti, Sebastiano Franci; Paolo Frisi, Luigi Lambertenghi, Gian Rinaldo Carli e pochissimi altri, di ciascuno dei quali Romagnoli dà precise e pertinenti notizie. Essi intendevano rivolgersi al pubblico per "spingere sempre più gli animi italiani allo spirito della lettura, alla stima del le scienze e delle belle arti, e ciò che è più importante all'amore delle virtù, dell'onestà, dell'adempimento de' propri doveri". Ma senza albagia o pedanteria, anzi "con ogni stile che non annoi" e con "qualche lampo di buon umore". Occorreva guardarsi dai rigori della censura, occorreva grande vigilanza, da parte di Pietro e Alessandro Verri, sui propri e sugli altri articoli; e l'accesso all'Archivio Verri, che sta alla base della presente edizione critica, ha permesso di scoprire -a riprova della grande riflessione che l'impresa comportò - che "Il Caffè" era stato preparato per un buon tratto della prima annata quando ancora non era uscito il foglio d'apertura. Tanto più che in quegli anni sebbene Pietro Verri fosse stato nominato membro della giunta costitutiva per la compilazione del nuovo contratto di appalto delle imposte, la "piccola e oscura società di amici" che si riuniva nell'Accademia dei Pugni non era "niente stimata nell'opinione pubblica". Tutto il lavoro di quegli amici si realizzava in un rapporto complesso tra patria, nazione e cosmopolitismo, che del periodico costituisce uno dei punti di forza, e che, insieme con la dichiarazione che contano i meriti reali e non il loro vanto a parole, sottolinea l'ancora grande attualità della lezione dei Verri e dei loro collaboratori. Anche la polemica sulla questione della lingua e dello stile, contro la pedanteria della tradizione letteraria italiana, ricca di eleganza formale ma povera di opere pensate e scritte per diffondere con coraggiosa efficacia i principi di una nuova età civile e politica, era l'espressione della tenace ricerca di una funzionalità comunicativa che si aprisse a tutta l'Italia il più ampiamente possibile, secondo modelli tutti stranieri, Steele, Swift, Addison, Pope, "The Spectator".
Nelle sue "Meditazioni sulla felicità", del 1763, Pietro Verri, esaltando il nuovo spirito che aleggiava sull'Europa, e in parte sulla stessa Italia, aveva scritto: "La natura de' principati, le finanze e la milizia di ogni stato, l'indole e il carattere di chi presiede, tutto è palese. Lo spirito filosofico va dilatandosi per ogni parte" e produrrà effetti grandiosi; e a questo impetuoso processo, che di là dalle Alpi era colto anche da Voltaire con parole quasi eguali, "Il Caffè" intendeva contribuire e in effetti contribuì. L'impegno era di far uscire il giornale ogni dieci giorni, e i fratelli Verri si adoperarono molto perché esso venisse rispettato, anche se ciò non fu sempre possibile. Ma il problema forse maggiore era quello della censura, e Francioni, nella sua "Storia editoriale del "Caffè"", espone dettagliatamente gli stratagemmi per stampare il periodico giostrando tra i censori lombardi e quelli veneti, e poi per far apparire un inesistente avallo dell'inquisitore veneto per fogli impressi a sua insaputa fuori della sua giurisdizione. Anche il problema dell'autocensura, del compromesso e dell'accomodamento è qui chiarito, e va tutto a onore dei redattori del periodico: "Nessuna autorità, nessun impegno - essi dichiararono - ci farà mai piegare ad inserire in questi fogli cosa che a noi non piaccia", e come ha osservato Domenico Losurdo in un saggio dedicato a Kant e qui citato, una censura "al tempo stesso occhiuta e ottusa" costringeva a "sviluppare tecniche che consentano di aggirare la censura senza essere colpiti dai suoi fulmini".
Breve, come si è detto, fu la vita del "Caffè". Nell'indirizzo "Al lettore" del secondo tomo, la spiegazione del distacco dal pubblico: "La piccola società di amici che ha scritti questi fogli è disciolta; alcuni hanno intrapreso un viaggio, altri sono impiegati in affari; vuole la necessità che si termini un lavoro che secondo il progetto degli autori non doveva sì presto chiudersi, e ciò accade nel tempo in cui l'accoglimento favorevole del pubblico più che mai invitava a proseguirlo". Poi di lì a pochi mesi la rottura con Beccaria e il conseguente dissolversi del gruppo dei Pugni, chiamato ciascuno degli esponenti a schierarsi in un'orgogliosa quanto vana disputa tra l'autore dei "Delitti" e quello delle "Meditazioni sulla felicità". E il rimpianto per "Il Caffè" resterà, nelle lettere di Pietro ad Alessandro, un motivo ricorrente.
Non si dirà mai abbastanza bene di questa edizione. Sulla scorta dei manoscritti dell'Archivio Verri è stato possibile ai curatori chiarire la paternità di diversi articoli. Le 14 appendici, le 136 pagine di apparato critico, le 68 pagine di note, l'indice dei collaboratori con i relativi articoli, l'indice delle opere citate, l'indice degli argomenti l'indice dei nomi completano in modo esemplare la riproduzione integrale della collezione dell'aureo periodico.
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