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Aretino, quarantenne, italianista formatosi negli Stati Uniti alla scuola di Paolo Valesio e lì attivo, studioso in particolare del Cinquecento, Alessandro Polcri sembra essere tutto tranne che un poeta-professore, soprattutto in virtù della gelosa e distinta privatezza del suo lavoro personale in versi rispetto al complesso della vita pubblicistica che si trova a dovere affrontare. Alberto Bertoni, che firma una come sempre impeccabile introduzione al libro, dimostra opportunamente che "la catena fonica dei significanti viene prima di ogni parola volta a organizzarla in discorso". Ciò equivale a dire, in partenza, che siamo ampiamente in salvo. In più il libro vanta un'architettura generale molto sorvegliata, una vera e propria guida di senso o invito alla lettura: si tratta di una singolare topografia simbolica dell'abitare la coscienza e il progetto di sé, fondata sul modello della domus che ha un punto di partenza esterno e approda all'intimità del privato. In realtà sembra che alla saldezza e razionalità del microcosmo si oppongano i modelli irriducibili della dispersione, dell'imprevedibilità. L'ineluttabilità del divenire e l'irripetibilità della materia mi sembrano le ossessioni dominanti in questi versi: entrambi i campi di coscienza convergenti su una visione elementare e drammatica (per quanto sostenuta da una convinzione religiosa discreta ma allertata) della materia, del corpo, della transitorietà e amabilità di ogni cosa. Credo di potere oggettivamente definire Polcri un poeta di formazione cristiana e contemporaneamente di poter sottolineare un'attitudine alla concretezza dell'immanenza che fa pensare senza rischi al Rebora migliore (quello prima della conversione, per intenderci). Il corpo stesso è progetto, la fisicità del mondo è ascolto e ricomposizione soggettiva inesauribile: probabilmente non solo per amore alla creazione, quanto, prima ancora, per una totalità di investimento nella vita che il soggetto sente di dovere esercitare. Da qui, in Polcri, un'ansia, un pathos misurato e alto, una sete di testualità capillare che sfocia in un'eccentricità lessicale diffusa, in un'altalena tra discorsività, pesantezza, decolli lirici e sinestetici, ellissi, echi dell'udito disseminati da maestro della parola. Mai estetizzante comunque; semmai fortemente problematico, provocatoriamente polisemico pur senza intenzioni sperimentali.
Giorgio Luzzi
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