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Pur non essendo un fan accanito del "boss", leggo sempre molto volentieri biografie ed autobiografie di pilastri della musica anni 80 e 90. Il libro è scritto molto bene e con un linguaggio scorrevole che permette una lettura sia tutta d'un fiato che con molto pause, come appunto sto facendo io. A mio avviso ho trovato molto dettagliata la parte relativa all'infanzia a discapito di una spiegazione politica e sociale veramente convincente del cavallo di battaglia di Bruce Springsteen ovvero "Born in the USA". Dallo stesso cantante sono scritte molto bene le parti narranti la sua gavetta nelle balere, le sue tribolazioni famigliari e il suo iniziale rapporto atipico verso i suoi figli. Libro ovviamente consigliato ai suoi fan.
Io sono un fan di Bruce Springsteen e per questo ho amato moltissimo questo libro!
The Boss, che altro dire? Un gran bel libro davvero, lo consiglio vivamente a tutti i fans.
Recensioni
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In attesa di ricevere l’edizione italiana, ero andato a leggere qualche recensione dell’autobiografia di Bruce Springsteen sulla stampa internazionale. (…) Mi aveva incuriosito la conclusione dell’articolo sul “Guardian”, là dove si diceva che nel libro ci sarebbero molte meno automobili che nelle canzoni di Springsteen (…). Confesso che ero pronto a sfruttare il suggerimento del recensore, e a scrivere che nell’autobiografia c’è anche molta meno musica. Ma ho dovuto ricredermi (…) di musica nel libro ce n’è. Anzi, ce n’è tanta, molto di più che nella maggioranza dei libri “su” Springsteen. Perché un libro parli di musica non è né necessario che usi una terminologia accademicamente corretta: quando Springsteen dice che il suo bassista “suona come Bill Wyman degli Stones” i lettori capiscono perfettamente cosa vuol dire. Il libro di Springsteen è ricchissimo di musica: contiene resoconti di situazioni di ascolto, di esecuzione, di composizione, contiene osservazioni di natura organologica (tipi di strumenti, loro caratteristiche, rapporti fra strumento e tecniche di esecuzione), contiene riflessioni critiche su questioni, di genere, di stile, e sul rapporto fra testo e musica nelle canzoni, nonché accenni ad aspetti della storia della popular music.
Ci sono alcuni passaggi illuminanti, (…) sull’effetto della British Invasion (1964-65) sulla musica degli Stati Uniti. Springsteen racconta che prima dell’arrivo dei Beatles negli Usa c’erano per lo più gruppi vocali che si facevano accompagnare da musicisti professionisti, o gruppi strumentali che non cantavano, ma l’idea di un gruppo vocale e strumentale, che per di più componesse le proprie canzoni, era del tutto ignota. Questa e altre osservazioni chiariscono il debito di Springsteen con la musica inglese. Vi si aggiungono, naturalmente, molti riferimenti nordamericani: dal rock’ n’ roll degli anni cinquanta al rhythm and blues, al soul, e poi al country, al folk. E qui si arriva, condotti per mano dallo stesso Springsteen, alla questione critica principale che lo riguarda, quella dell’autenticità. Leggendo il dipanarsi iniziale della carriera del Boss, fino al successo già consolidato, ci si domanda dove mai trovi fondamento quell’immagine di rock “autentico” che lo ha sempre accompagnato: si legge che Springsteen con i musicisti insieme ai quali ha lavorato ha fatto veramente di tutto, suonando ballabili da un bar all’altro, arrivando perfino a un discreto successo con un gruppo, gli Steel Mill, che lo stesso autore definisce “prog-metal”. E quando arriva a proporsi alle case discografiche come cantautore, è perché in quel momento i cantautori “tirano”.
Niente sorprese o scandali, per carità. Anzi. Born To Run spiega efficacemente proprio l’anomalia di un cantautore “serio” che sapeva ballare, suonare la chitarra elettrica e infiammare una platea prima di registrare il primo disco.
Recensione di Franco Fabbri
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