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La posta in gioco in questo volume è la possibilità, nel nostro particolare momento storico, di un pensiero attraversato dalla continua e programmatica preoccupazione di mettere in questione il luogo a partire da cui si pensa, si scrive e si insegna. In altri termini quello di MacIntyre è un tentativo di un pensiero non ideologico che si interroga intorno a sé in quanto pratica, vale a dire in quanto attività di tipo spirituale incarnata in un corpo fisico e soprattutto storico-sociale, quello delle tradizioni di ricerca e delle istituzioni in cui esse operano. Da questo punto di vista il radicalismo morale di MacIntyre va inteso innanzitutto come istanza di auto-criticità da parte di chi svolge una funzione sociale di tipo intellettuale in un contesto culturale e sociale tardo-moderno. L’istanza anti-ideologica conduce MacIntyre a identificare la politica con l’esercizio della razionalità pratica, la quale ha nella comunità la propria condizione di possibilità. La politica quindi si regge sulla comunità, presupposto che la politica è incapace di produrre e che anzi, nella sua forma moderna, essa tende a erodere. La proposta politica macintyriana – paradossale, in quanto non può venire tradotta in un programma politico – invita di conseguenza a un ripensamento del rapporto tra teoria e prassi che coinvolge la natura medesima della razionalità. La ragione, intesa da MacIntyre come pratica discorsiva intrinsecamente narrativa, fornisce alla vita un ordinamento dei beni nel mentre la racconta e, nello stesso tempo, manifesta se stessa come qualcosa di vivente. Nella pratica razionale vita e ragione non si contrappongono ma si costituiscono vicendevolmente. In tal modo è possibile tracciare una biografia della ragione (dove il genitivo è tanto soggettivo quanto oggettivo).
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