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Avvicinandosi al compimento del suo ventennio, il fenomeno Berlusconi entra nello spazio della riflessione storica, dopo aver tenuto banco in quello dell'analisi politica. In sintesi la tesi dell'autore, non nuova ma svolta con dovizia di particolari e documentata con lo spoglio delle più acute e recenti analisi politologiche della stampa italiana, è che l'eccesso di personalizzazione, a cui spesso l'opposizione ha fatto ricorso, vuoi demonizzandolo vuoi confidando nell'intervento risolutore della magistratura, ha rafforzato il protagonismo del personaggio e favorito il suo radicamento nella società italiana, nuocendo a quanti, dal 1993 a oggi, hanno impegnato le loro energie nel contrastarlo. In questa deriva personalistica risiede uno dei limiti principali dell'antiberlusconismo, che spesso si è ridotto a un discorso etico-politico. Su un piano storico, più che il fascismo, impropriamente evocato, a Berlusconi, e al berlusconismo, mutatis mutandis, si addice meglio la categoria del bonapartismo, di cui molti suoi caratteri (il populismo, la deriva plebiscitaria, la leadership personale, la iperpersonalizzazione della politica e la sua spettacolarizzazione), potenziati dai media, sembrano incarnare l'essenza. La sua fenomenologia, da ascrivere più alla gobettiana autobiografia della nazione che alla parentesi dello spirito di crociana memoria, ha origine nella "morte della politica come contrapposizione di idee", terreno da cui dovrebbero ripartire quanti non hanno intenzione di morire berlusconiani, e in particolare la sinistra. Essendo un prodotto sociale, al cui successo ha aperto la strada il tracollo delle culture politiche e ideali del movimento operaio, la via maestra per rimontarlo non può che essere tentata a partire da un progetto in cui si investa "concretamente e a fondo in una nuova idea di società".
Nino De Amicis
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