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Anno edizione: 2010
Anno edizione: 2010
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In una piovosa mattina viennese del maggio 1938, un giovane fotografo di nome Edmund Engelman si arresta davanti al numero 19 della Berggasse. I primi scatti sono per il prospetto in stile eclettico del palazzo, sul cui portone è appeso uno stendardo con la croce uncinata; anche dal tetto pende una bandiera nazista, issata da alcuni entusiasti dell'annessione dell'Austria al Reich. Engelman scivola nell'androne dell'edificio e sale le scale sino alla porta dell'appartamento al primo piano: "Prof. Dr. Freud, 3-4" (l'orario di ricevimento pomeridiano per i pazienti senza appuntamento).
Sigmund Freud e la sua famiglia stanno per lasciare Vienna, in fuga dai nazisti. La Gestapo li sorveglia giorno e notte, dall'interno e dall'esterno del palazzo. Difficile in tali condizioni senza l'utilizzo di illuminazione artificiale, per non destare sospetti realizzare il servizio commissionato a Engelman: fotografare lo studio e la casa abitata da Sigmund Freud per oltre quarant'anni. Engelman riesce comunque a ritrarre, in 56 scatti in bianco e nero, gli ambienti di vita e di lavoro di Freud, privilegiando le riprese dai punti della casa in cui questi soleva sostare più a lungo, e la sua ricchissima collezione di antichità. Poche settimane più tardi, il 3 giugno 1938, Freud parte per Londra, dove morirà l'anno seguente; di lì a poco, anche Engelman lascia Vienna per gli Stati Uniti.
I negativi delle immagini di Berggasse 19, fortunosamente recuperati, furono pubblicati a New York nel 1976, in un volume ora proposto per la prima volta in edizione italiana da Abscondita. Le tavole, sobriamente eleganti nel grande formato della collana "Mnemosyne", sono introdotte da uno scritto di Engelman e commentate da informatissime didascalie, particolarmente preziose per ciò che riguarda l'erudizione antiquaria collegata al collezionismo freudiano.
Il libro è occasione per ritornare sul legame, assai divulgato tra i lettori di Freud, tra psicoanalisi e archeologia; ma consente altresì di gettare una sonda su quello, solo di recente indagato, tra psicoanalisi e fotografia. Non tanto nella direzione, indicata da Didi-Huberman a proposito di Charcot, dell'efficacia dell'immagine fotografica nell'"invenzione" scientifica del sintomo isterico, quanto piuttosto della fotografia come "specchio della memoria" analogo a quello psicoanalitico (cfr. ora Mary Bergstein, Mirrors of memory. Freud, photography, and the history of art, Cornell University Press, 2010): non tanto la fotografia per "congelare" il sintomo in una posa, quanto per ridare vita e movimento a profondità psichiche inabissate.
Una fotografia di Engelman ritrae la sala di consultazione dalla poltrona sulla quale sedeva Freud, accosto al celebre divano. Sulla parete opposta è appesa una riproduzione di un quadro intitolato Une leçon du Docteur Charcot à la Salpêtrière. Alla figlia Mathilde, che spesso chiedeva di cosa soffrisse la donna dell'immagine, Freud usava rispondere: "È legata troppo stretta" icona di dolorosa immobilità alla quale risponde, sulla parete opposta, alle spalle di Freud, una copia in gesso del bassorilievo romano della Gradiva, "colei che avanza", al centro di un racconto di Wilhelm Jensen analizzato in un saggio psicoanalitico del 1907. Gradiva è la ninfa, protagonista delle infinite variazioni che, negli stessi anni di Freud, andava inseguendo Warburg; nelle pieghe della sua veste in movimento trova espressione un pathos rimosso, che riemerge dal passato come una fotografia da un cassetto polveroso.
Marco Maggi
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