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La rivolta delle banlieues esplosa a Parigi nel 2005 ha impegnato gli studiosi nella ricerca delle motivazioni per cui si sono determinate delle fratture all’interno dei modelli d’integrazione. Il filo rosso che permette di azzardare una lettura comune di questi fenomeni è che, a differenza delle rivolte degli anni ’60-’70, queste sono guidate da giovani di seconda o terza generazione di immigrati. In particolare, in Francia i protagonisti sono stati magrebini e africani, cittadini francesi a tutti gli effetti, ricacciati a forza nella loro identità etnica, traditi dai markers e dalla loro condizione sociale, che li ha relegati nelle periferie infamanti delle grandi metropoli. Se dagli episodi parigini ne esce sconfitto principalmente il modello d’integrazione assimilazionista, anche quello multiculturale inglese e nordamericano deve fare i conti la presa di coscienza del fallimento. Ma ciò che emerge con forza ad uno sguardo più attento è che il conflitto non è specificamente di natura etnica, ma è riconducibile a dinamiche socio-economiche poiché la migrazione ha avuto un senso nella misura in cui ha attirato un sottoproletariato dall’estero, spesso ghettizzato perché impossibilitato ad accedere ad una serie di servizi sociali e quindi orientato ad affidarsi ad una solidarietà comunitaria attivata all’interno del gruppo dei simili. Si tratta di un’aggregazione di natura economica che solo incidentalmente è anche linguistica e culturale, anzi talvolta diventa inaspettatamente transculturale, giacché crea legami tra comunità storicamente in conflitto nei paesi di provenienza, ma unite nell’avversare la nazione ospitante, incapace di garantire la mobilità sociale.
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