L'autore lo definisce "un fedele ritratto della nobiltà marxista dell'Urss". Della haute société comunista di Mosca "tutto è vero: gli uomini, gli avvenimenti, le cose, i luoghi. I personaggi non sono nati dalla fantasia dell'autore, ma sono dipinti dal vivo". Malaparte fa un ampio uso dell'io, e ostenta familiarità con tutti i moscoviti parlando loro in francese, lingua poco conosciuta fuori dalla cerchia aristocratica. Per questo, oltre ad apprezzare le sue grandi doti di narratore, può essere interessante capire se i fatti di cui parla si siano svolti davvero nel periodo in cui li colloca. L'analisi della società elitaria attraverso le mogli dei funzionari ha del fascino ma interessa poco la storia vera. Malaparte amava il proprio racconto più della cronaca e della verità storica. Il ballo al Cremlino è ambientato durante una festa all'ambasciata britannica di Mosca. Il gossip della stagione? Stalin riuscirà a strappare la prima ballerina del Bolshoi, Semjonova, al tenebroso e affascinante Karakan? Lei sta entrando e il padrone di casa, Sir Ovey, le offre il braccio e la porta al buffet. "Lei regge con la mano sinistra il lembo della gonna che copriva appena i due piccoli piedi famosi, per cui tutta Mosca delirava, stretti in due scarpette di raso bianco". Nel silenzio Karakan invita la Semjonova a un valzer: è il clou della serata. Manca solo la principessa Sissi. Karakan, rivoluzionario, già ambasciatore in Occidente, anche a Berlino, è l'idolo di Malaparte che, come ogni viaggiatore, ha trovato il suo Napoleone. Campione di tennis, vestito in completi bianchi di lino, usava solo le palle che si faceva spedire da Londra perché, spiegava all'ambasciatrice inglese in perfetta cadenza di Oxford, quelle sovietiche non rimbalzavano bene. Quasi quasi viene voglia di tifare per Stalin che lo incluse negli elenchi dei cattivi e lo fece ammazzare nel '36. Malaparte giunge a Mosca pieno di entusiasmo, ma gli eroi della rivoluzione gli appaiono diversi da come se li era immaginati da lontano. Salvo Karakan, il pubblico presente all'ambasciata inglese gli pare corrotto, meschino, fatto di avventurieri o antichi sottoufficiali zaristi marci di ambizione personale. Poi si sofferma sulle "bellezze" del regime, forse perché le considera un corredo irrinunciabile di qualunque nuova aristocrazia. Con grande abilità descrive due mogli di marescialli, ambedue grassottelle, e la moglie di un altro maresciallo, Madame Budionnova, tonda e grassa, rimasta semplice (e il marito non aveva fatto nulla per cambiarla), ma, osserva l'autore, dotata di una volgarità piacevole. La moglie del responsabile della Cultura Lunacarski era invece bruna e pallida, un viso dai lineamenti un po' grossi, occhi neri, gonfi di sensualità, di cattiveria, di sonno, occhi di carne così dissimili dagli occhi di vetro chiaro delle donne russe del popolo. Chissà perché una signora della borghesia ebraica, Natalia Rozenel, avrebbe dovuto avere le sembianze di una contadina russa? "Parlatemi di Parigi" gli chiede Madame Lunacarski. E Malaparte lo fa, mentre difficilmente la moglie di un ministro della Cultura avrebbe potuto discutere di Parigi e dei suoi scrittori in quelle circostanze e con quel tono confidenziale che ritroviamo nel libro: tutto è così lontano dal rigoroso e serioso comportamento degli ospiti sovietici durante un ricevimento ufficiale. Il commissario Lunacarski abitava in poche stanze dai mobili scadenti che abbondavano solo di libri. Per molti anni la sua abitazione ebbe la funzione di casa-museo e divenne un'attrazione per gli ospiti stranieri. I colloqui più significativi di Malaparte a Mosca, quelli che dimostrerebbero la sua dimestichezza con la classe dirigente rivoluzionaria, sono quelli con Lunacarski e con il ministro Litvinov, ma riguardano soprattutto la letteratura, anche se con alcuni l'autore prova a parlare anche di Cristo, senza però trovare alcuna sintonia. I suoi interlocutori, riferisce Malaparte, sarebbero colpiti dal suicidio di Majakovski, che però avvenne il 14 aprile 1930, cioè un anno circa dopo il viaggio dell'autore in Russia. Nel libro la nobiltà russa di sangue sarebbe dotata di qualità come la riservatezza, la semplicità, il naturale decoro, una certa condiscendenza nei modi, nelle parole, nel sorriso e tante altre cose ancora. Quel che invece costituisce il carattere principale della nobiltà comunista non sarebbe la "compiacenza della ricchezza, del lusso, della potenza, bensì il sospetto e l'intransigenza ideologica". Il loro disprezzo verso le vecchie classi dirigenti era sociale, quello di persone vissute fino al giorno prima nella miseria, nel sospetto, nella precarietà della clandestinità e della migrazione. Ma in pochi anni sarebbe stato possibile inventare un'intera casta, ancora precaria e incerta sul futuro, e farle determinare un sistema politico? L'eliminazione in Russia, in quella fase storica, dei comunisti troppo di destra o di sinistra era compito della polizia segreta, e in nessun modo rappresentava un attacco al monopolio di Stalin. Ad affascinare l'autore, poi, è il sonno dell'immensa città proletaria, con il suo odore speciale, diverso da quello del sonno borghese. L'operaio non sogna la macchina, non il pane, non la vita lussuosa, "questi sarebbero sogni piccolo borghesi". Sogna l'erba, la campagna, cose semplici, "una povertà di cui egli è partecipe, ma in qualità di padrone, non di schiavo". Sogna un mondo povero, dove regni la giustizia. Della libertà non sa che farsene, non è una sua esigenza. La libertà per l'operaio non ha senso, ha senso solo la giustizia. Oltre a quel sogno, l'autore parla della decadenza della società marxista. E non solo di quella del '29, ancora trozkista. Il segno distintivo del nuovo proletario sarebbe il fatalismo, ragione intima di ogni individuo russo, sotto la maschera di un'attività e di una fede fanatica. Malaparte ritiene di aver colto e mostrato l'inizio di questa decadenza della nuova nobiltà comunista. È tuttavia solo un frutto della propaganda staliniana l'immagine di Trockij come capo del gruppo politico che si identificava con la classe dirigente degli anni 1929-30, fatta di "pederasti, prostitute, borghesi arricchite e ufficialetti, sfruttatori della rivoluzione di ottobre". Le purghe tra il '36 e il '38 hanno eliminato una parte dei funzionari del partito, le loro mogli sono finite nell'anonimato, alcune anche in prigione, ma non hanno toccato la sostanza della catena di comando. Quella che il nostro autore chiama "la nuova aristocrazia" finisce nelle purghe del '36 ed è sostituita da un altro gruppo di privilegiati che, come i loro predecessori, vissero senza eleganza, senza moderazione e con grandi privilegi nel consumo. In parte, ma solo in parte, il privilegio di pochi finisce con la morte di Stalin e, se avesse voluto, Malaparte avrebbe potuto ammorbidire qualche giudizio, visto che visitò per la seconda volta Mosca ventisette anni dopo, quando già il rapporto di Krusciov non era più un segreto. La via centrale della capitale ha mantenuto fino a Gorbaciov la corsia preferenziale per le macchine dei dirigenti, ognuno di questi aveva una villa, più che una dacia, nei boschi intorno alla capitale. La classe dirigente continuava a rifornirsi di merci introvabili nei negozi, in alcuni spacci dai prezzi bassi. Malaparte ha sempre saputo descrivere la miseria e raccontare come anche gli ex ricchi piangono. Su una delle piazze centrali incontra il principe Lwow con una poltrona in testa, "perché quelle dorate sembrano tornare in voga", che spera di vendere ai nuovi ricchi, e alza la poltrona deferente per salutare la principessa Galitzin, che vende sigarette davanti all'hotel Metropol, "povera signora che non sa che lo zar è già morto". Demetrio Volcic
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