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scheda di Vittori, M.V., L'Indice 1996, n. 7
L'esigenza di confessarsi e, subito dopo, il bisogno di scagionarsi coltivano un loro speciale rapporto nella narrativa di Gianna Manzini: matrice unica, l'accanito egocentrismo che percorre ogni sua storia, e costringe, perfino, ogni critico che voglia occuparsi di lei, ad adoperare lo stesso frasario immaginoso.La non facile scrittura manziniana sembrava quasi aver spaventato gli editori, che non riproponevano più, da anni, le sue opere. Arriva quindi come dono inaspettato, questa collana di racconti allacciati su un filo di referenza autobiografica, scelti e ben introdotti da Margherita Ghilardi.La vocazione all'egocentrismo matura subito, nella bambina di "Gentilina" e "Rive remote", come attitudine a porsi al centro delle cose: di un giocattolo, di una piega del paesaggio o di un volto, e a fonderle con il respiro, l'onda del sangue. Pericolo grande è questo, che fa avvitare il cuore in spirali di "simboli e prestigi"; che modella il linguaggio in vortici d'immagini sempre più sinuose. Per cui la scrittura può alimentare un sospetto di "troppo goduto", come la scrittrice denuncia - ma con un malcelato brillio di compiacimento. Lei stessa ha la costante sensazione di essersi spinta oltre, magari truccando le carte e barando: e si capisce che forse nemmeno questo le dispiace, come s'affannano a dire i tanti personaggi in cui si riverbera. Non bisogna dimenticarsi, infatti - a discolpa - che la posta in gioco è alta: qui si tratta di osare le parole più difficili, quelle che, secondo Virginia Woolf, richiedono "un coraggio da leone": le parole riferite al corpo e alla sua muta sapienza, ai suoi deliri (sono i temi di "Cara prigione", "Ho visto il tuo cuore", "Quasi un delirio"); qui si tratta di cercare le parole che sappiano render conto delle premonizioni e dei messaggi che arrivano da creature al di là della vita, che attendono di nascere, come la tenerissima Munda ("Bambina che aspetta") o sono già morte (il padre di "Messaggio", la madre e le altre persone care di "Specchiata in un sogno"); le parole che valgono perfino in un universo di lettere mutilate, come accade nel racconto "Sulla soglia".
Il linguaggio che deve varcare la soglia - immagine ricorrente nelle pagine manziniane - è acceso, vibrante, per provocare quella scintilla che dà luogo all'amorosa intuizione: di qui gli aggettivi lanciati come esche, con qualcosa di fiero e, insieme, di estenuato; la gamma espressionistica dei colori che perturbano la realtà - quei verdi animosi o umiliati; i bianchi smarriti o presuntuosi -; la punteggiatura inquieta che fa della pagina partitura ritmica, con la lievità delle virgole, l'indugio dei due punti, la rincorsa spesso affannata e spavalda dei punto e virgola. Del resto - è il grande pittore El Greco a dirlo - "sui carboni ardenti non si può che correre o saltare, ed io - continua, amorosamente sollecitato dall'autrice - in materia di autoritratto sono sui carboni ardenti". Una delle ultime confessioni, una delle ultime discolpe di Gianna Manzini, è proprio questo "Autoritratto involontario", racconto che contiene, in conclusione, il suo luminoso credo d'artista, fatto confessare a El Greco: l'aver voluto, sempre, sconfinare "in una interezza anarchica, geometrica, terribile e amorosa".
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