(Firenze? 1313 - Certaldo, Firenze, 1375) scrittore italiano.La vita Nacque probabilmente a Firenze, da una famiglia di origine certaldese, figlio illegittimo di Boccaccino di Chellino, un mercante e cambiatore assai abbiente, che cercò di indirizzare il figlio all’arte del cambio. Ancora adolescente, B. è a Napoli a far pratica mercantile e bancaria nella succursale del banco fiorentino dei Bardi, ma odia questo lavoro a tal punto da costringere il padre a indirizzarlo ad altri studi, quelli di diritto canonico. Ma altri furono infine i testi su cui B. si gettò con entusiasmo, favorito anche dall’ambiente culturalmente vivacissimo della corte angioina e dalla vicinanza di uomini dotti come il giurista e poeta Cino da Pistoia e l’astronomo genovese Andalò del Negro: testi di poesia e di varia letteratura, dai classici latini alla letteratura medievale francese e italiana. Furono anni felici, di intense esperienze culturali e umane, a contatto con la fastosa corte angioina, la ricca borghesia libera e spregiudicata che la coronava e il mondo bizzarro e fantastico del popolo napoletano, dei mercanti e avventurieri di ogni paese di cui la città era ricetto. Intorno al 1340, B. è di nuovo a Firenze, suo malgrado, richiamatovi dal padre in dissesto economico. Poco sappiamo degli anni successivi: gira per varie corti del nord, tra cui Ravenna (1346), forse alla ricerca di una sistemazione. Ma nel 1348 è di nuovo a Firenze, durante la terribile pestilenza, che avrebbe descritto poi nelle pagine introduttive del suo Decameron e di cui morirono molti suoi amici, oltre al padre e alla seconda matrigna. Importante, per le conseguenze psicologiche e culturali che ebbe nella sua vita, fu l’incontro a Firenze, nel 1350, con Petrarca, che egli rivide l’anno dopo a Padova, e ancora a Milano nel 1359 e a Venezia nel 1363, e con cui mantenne sempre affettuosa corrispondenza. Poeta ormai noto e apprezzato studioso, fu incaricato dai concittadini di molte ambascerie: in Romagna (1353), ad Avignone: presso Innocenzo VI (1354), e a Napoli, per un incontro con il fiorentino Niccolò Acciaiuoli, gran siniscalco del regno. Ritiratosi, intorno al 1361, a Certaldo, vi ricevette una lettera del certosino Pietro Petroni, morto in odore di santità: lo scrittore veniva esortato ad abbandonare gli studi profani, per pensare di più alla sua anima e al destino mortale dell’uomo. Da tempo però B. era diventato chierico con cura di anime, senza per questo rinnegare la letteratura, di cui anzi promosse la svolta nella direzione del nascente umanesimo. Sventure (la morte, verso il 1358, della figlioletta Violante), malattie e povertà resero duri i suoi anni maturi. Nel 1373 fu incaricato dal comune di Firenze di una lettura ufficiale della Divina Commedia, incarico che svolse con continuità, per circa un anno, finché le critiche di alcuni dotti fiorentini e la salute sempre più malferma non lo costrinsero a ritirarsi di nuovo a Certaldo, dove morì il 21 dicembre 1375.Le opere minori Le numerose opere prosastiche e poetiche anteriori al Decameron, di cui spesso anticipano i temi e le cadenze strutturali, denotano subito l’indirizzo di B. verso una letteratura amena, di intrattenimento, sulla scia del romanzo cavalleresco, anche se disciplinata dalla tecnica raffinata della retorica medievale. In quelle della giovinezza napoletana, l’elemento autobiografico come esperienza di vita e di amore predomina, ma travestito allegoricamente. Poco più che esercitazioni letterarie sono le prime Rime, d’argomento amoroso, l’Elegia di Costanza, operetta latina in versi, e la Caccia di Diana (1334 ca), poemetto in terza rima, che celebra in chiave mitologica gentildonne napoletane. Di maggior impegno il Filocolo («fatica d’amore», secondo una personale etimologia), romanzo in prosa, diviso in cinque libri (1336-38), che narra gli amori di Florio e Biancifiore, tratti da una leggenda medievale. In quest’opera in cui usanze pagane e cristiane s’intrecciano anacronisticamente e in cui appare per la prima volta anche Fiammetta, proiezione di un’autobiografia più ideale che reale dello scrittore e che presiede quasi tutta la sua produzione giovanile, B. tenta di nobilitare stilisticamente una materia popolare, così che le avventure e le peripezie dei due amanti divengono il pretesto per esercizi retorici che chiudono la prosa latineggiante nelle rigide intelaiature delle clausole e dei ritmi classici e della latinità decadente. A Napoli, oltre a una Allegoria mitologica, parafrasi in prosa latina delle Metamorfosi di Ovidio, scrisse ancora il poemetto in ottave, forse terminato a Firenze, Teseida delle nozze di Emilia (1339-41 ca). Ispirato ai modelli dell’Eneide virgiliana e della Tebaide di Stazio contaminati dalla tradizione dei cantori e dalla materia cortese dei romanzi arturiani, il poema cresce su un impianto epico che muove dalla guerra di Teseo re di Atene contro le Amazzoni, e tuttavia l’epos rimane una semplice cornice al nucleo più vivo dell’opera, quello lirico-sentimentale. Più espliciti caratteri di romanzo sentimentale mostra il Filostrato («vinto d’amore», sempre secondo l’errata etimologia di B.), poema in ottave ispirato a un episodio del Roman de Troie di Benoit de Sainte-Maure, largamente influenzato dalla voga erotico-cavalleresca della narrativa francese. L’incertezza cronologica circa la sua composizione (1335, ’39 o ’40) pone in evidenza il carattere sperimentale della produzione napoletana di B. e la sua disponibilità al romanzesco, più o meno celato dagli schemi classicheggianti dell’epoca.Col ritorno a Firenze, l’arte di B. acquista in maturità e in equilibrio stilistico; l’autobiografismo sentimentale è meno presente, e al gusto della letteratura cortese cavalleresca subentra piuttosto l’influsso della poesia didascalica e allegorica, propria della tradizione toscana. La Commedia delle Ninfe (più nota con l’intitolazione quattrocentesca Ninfale d’Ameto, 1341-42), opera in prosa intramezzata da terzine dantesche, ha un assunto chiaramente allegorico: il pastore Ameto simboleggia l’umanità, e le sette ninfe, tra cui l’amata Lia, le virtù cardinali e teologali, attraverso le quali l’uomo si ingentilisce e si purifica fino a pervenire all’amore divino. Ma l’allegoria resta sovraimpressa, mentre predomina il dato mondano e realistico, anche se stilisticamente inficiato da riferimenti eruditi e da tecnicismi retorici. Lo stesso assunto allegorico, ma più esplicitamente dottrinale e artificioso, si ritrova nell’Amorosa visione (1342), prolisso poema di terzine dantesche, in 50 canti.Databile intorno al 1343-44 l’Elegia di Madonna Fiammetta, romanzo in 9 capitoli, preceduti da un proemio dedicato alle «vaghe donne». La narrazione è condotta in prima persona: è Fiammetta stessa che narra del suo amore per Panfilo, della sua tristezza al momento della partenza di costui, del suo tentato suicidio allorché diviene certa di essere tradita dall’amante. La vicenda e il fondo probabilmente autobiografico sono risolti dallo scrittore con distacco imperturbabile e insieme con profonda intuizione psicologica. Ma la prosa, artefatta e spesso ampollosa, guasta il ritmo stilistico; erudizioni inutili e reminiscenze classiche rompono di continuo la fluidità del racconto.Tra le opere minori la migliore è il Ninfale fiesolano (1345-46), poemetto in ottave che, sotto il pretesto eziologico (la fondazione di Fiesole e quindi di Firenze), racconta una tenue e delicata storia d’amore tra il pastore Africo e la ninfa Mensola, sacra al culto di Diana. Sapientemente dosato è, nel poema, il contrasto fra i toni realistici attinti alla letteratura popolare e i toni lirici e melodici della poesia illustre. A questo periodo risale anche, probabilmente, il volgarizzamento della III e IV decade della storia di Tito Livio, attribuito ormai quasi unanimemente allo scrittore. Scarso valore poetico hanno le Rime, cui si è già accennato: un vasto canzoniere composto in vari periodi della sua vita e che subisce di volta in volta gli influssi poetici di vari autori. L’ultima opera di fantasia (posteriore al Decameron) è il Corbaccio, composto in prosa in data imprecisabile, verosimilmente tra il 1365 e il 1366. Il titolo tutt’oggi enigmatico potrebbe derivare dallo spagnolo corbacho, cioè frusta, oppure allude al corvo che, nelle moralità medievali, simboleggiava la passione amorosa che tutto distrugge e travolge e dalla quale si difende il «chierico» B. facendo rivelare le malefatte di una vedova (che l’ha respinto) dall’ombra del marito defunto apparsagli in sogno. L’aspro vituperium, forse dettato da circostanze biografiche, iscrivibile nella tradizione della satira misogina risalente a Giovenale e ripresa in età medievale in chiave spiritualistica e moralistica ma anche beffarda e goliardica, si vale di uno stile intenzionalmente triviale e caricaturale, già sperimentato nel Decameron ma qui esasperato. Alla fine, la dispettosa amarezza del racconto è temperata dalla decisione, annunciata dallo scrittore, di dedicarsi d’allora in poi alle meditazioni e agli studi. Il che realmente fece. Dopo il Corbaccio, infatti, B. non scrisse più opere narrative in volgare. Preferì dedicarsi a studi più austeri, non tanto, forse, per l’acuirsi delle preoccupazioni religiose, quanto per un appassionato e mai trascurato culto degli antichi, che in quegli anni (1360 e oltre) riuniva intorno a lui un attivo gruppo di umanisti, tra cui Coluccio Salutati e Filippo Villani. Questo fervore umanistico B. lo espresse in sapienti ed erudite opere latine: il Buccolicum carmen, raccolta di 16 egloghe di derivazione virgiliana e petrarchesca (in volume nel 1367); il Genealogia deorum gentilium, vasto trattato in 15 libri di mitologia classica, completato intorno al 1365; il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludis, et de nominibus maris liber, repertorio ordinato alfabeticamente dei nomi geografici ricorrenti in opere classiche (finito verso il 1360); il De casibus virorum illustrium (compiuto nel 1373) che raccoglie una serie di aneddoti biografici di grandi personaggi avversati dalla sorte, con intenti morali; e il De mulieribus claris (1361-62), 104 biografie di donne famose. A ciò vanno aggiunte le Epistole, di cui restano solo 24 (due in traduzione italiana), e gli studi in volgare dedicati a Dante: il Trattatello in laude di Dante, pervenutoci in tre redazioni (1355-70 ca), in cui è tracciato un ideale ritratto del grande e ammirato poeta; e le Esposizioni sopra la Commedia di Dante, raccolta di materiale erudito sul poema dantesco, in gran parte utilizzato per le lezioni che B. tenne, fino al XVII canto dell’Inferno, in Santo Stefano.Il «Decameron» La tensione artistica ed espressiva che anima le opere minori, indebolite in parte da una non completa capacità di dominare il materiale e da un inquieto cimentarsi in più direzioni formali e stilistiche, trova una compiuta resultanza nella poesia e nell’umanità del capolavoro di B., il Decameron (che ha il sottotitolo dantesco di «prencipe Galeotto»). A parte la probabile revisione (o una più tardiva trascrizione), la mirabile raccolta di novelle è stata quasi certamente scritta e compiuta tra il 1349 e il 1353, all’indomani cioè del luttuoso evento del ’48, la peste sul cui cupo sfondo B. dà «orrido cominciamento» al suo libro, quasi a sottolineare la serietà dell’intento. Come dice il titolo grecizzante (forgiato probabilmente sull’Hexameron di sant’Ambrogio), l’azione si svolge e si chiude nel giro di dieci giornate di racconto. Dopo un «proemio» indirizzato alle «vaghe donne» che per prova conoscano amore, la lunga introduzione alla prima giornata dà un quadro terrificante dell’atmosfera di orrore e di morte che circonda Firenze in preda alla peste. B. immagina che nella chiesa di S. Maria Novella si incontrino per caso sette fanciulle e tre giovani uomini e che insieme decidano di ritirarsi in una villa dei vicini colli per sfuggire al contagio e per trascorrere un po’ di tempo allegramente, fra amabili conversari, banchetti e danze. Ogni giorno, tranne il venerdì e il sabato dedicati a pratiche religiose, i giovani si radunano al pomeriggio su un prato, per raccontare novelle, una per ciascuno; queste si svolgono intorno a un tema prestabilito, proposto ogni volta dal re o dalla regina eletti quotidianamente dalla compagnia. Dopo ciascun gruppo di racconti trova posto una «conclusione» suggellata da una ballata. Ma la struttura architettonica entro cui si svolge la silloge si concede più di una libertà: nella I e nella IX giornata il tema è libero; Dioneo, uno dei tre giovani, ha sempre il permesso di narrare il suo racconto evadendo dalla regola imposta del tema. Inoltre le digressioni sulle attività idilliche e beate della brigata, i commenti vari degli ascoltatori, le intrusioni e le conclusioni dell’autore, animano e variano lo schema della cornice. La quale non ha funzioni meramente ornamentali, ma risponde a un’intima esigenza, quella di chiudere in un affresco ben delineato e caratterizzato un ideale di vita e di realtà che i racconti presentano e rifrangono nei più vari e multiformi aspetti. All’interno delle singole novelle si riproduce infatti in poliedriche sfaccettature una più viva e armonica unità, quella della complessa vita umana, la cui salvezza tutta laica è additata da B. nella forza della passione e dell’intelligenza.Sfilano così, in una galleria vasta e multicolore come il reale, vicende e figure, emblemi e simboli di vizi e virtù, che lo sguardo, ora distaccato e ironico, ora appassionato e partecipe, dello scrittore disegna e ferma senza compiacimenti né indulgenze: dagli esempi valorosi di Tito e Gisippo, alle passioni eroiche e travolgenti della moglie di Guglielmo Rossiglione, di Ghismonda di Salerno, di Lisabetta da Messina; dalle indimenticabili traversie degli sciocchi (come Andreuccio da Perugia, Calandrino, Ferondo) alle trovate argute e demoniache degli ipocriti e degli imbroglioni (frate Cipolla, Ser Ciappelletto, Martellino); dagli affreschi maliziosi e ridanciani (come il racconto delle monache e della badessa, o la novella di Masetto da Lamporecchio) alle manifestazioni delle più raffinate qualità (l’arguzia gentile di Cisti fornaio, l’intelligenza di Melchisedech, l’ingegno e la modestia di Giotto, la pensosa aristocrazia di Guido Cavalcanti); fino agli spunti più licenziosi e spregiudicati, che hanno chiuso per anni il Decameron in un’immeritata fama di oscenità. In realtà, la trama erotica, lo spunto osceno e beffardo non sono mai fine a se stessi, ma rientrano nel complesso quadro dell’esistenza e dei sentimenti, nel mutevole manifestarsi della passione o dell’erotismo, di cui B. rivendica i diritti anche per l’arte, argomentando i temi di una consapevole poetica della natura e del comico nella introduzione alla IV giornata, ricca di spunti polemici e innovatori. Perché la realtà prende il posto del mito e dell’allegoria, così come il genere novellistico degli ameni fabliaux e dei devozionali exempla è ribaltato dallo scrittore in una fitta e cangiante trama di realismo comico e tragico, in cui predominano l’amore, l’avventura, l’intrigo, la beffa, l’odio e la riflessione morale.Il Decameron costituisce certamente lo specchio fedele e acuto della civiltà borghese, della società comunale e mercantile nel suo pieno sviluppo, ma nella quale già si avverte il sintomo della crisi imminente. La sua realtà è quella dei traffici, della lotta per sopravvivere, della conquista e della violenza, dell’ingegno industrioso e abile, ed è descritta da B. con la foga fantastica di chi coglie luci e ombre di un passato ancora vivo e di un futuro problematico ma insieme fiduciosamente atteso. La struttura e la tecnica del Decameron si attuano perfettamente in virtù di una prosa policorde e variabile, lavorata a più livelli: solenne e distesa in periodi ipotattici talvolta, quanto scattante, secca, dinamica talaltra; estrosa e duttilissima sempre nel mimare i dialoghi, la dialettica vivace e mordente dell’umanità boccaccesca.La fortuna del «Decameron» Immediata fu la diffusione del Decameron in Italia e in Europa, come attestano le numerose traduzioni e imitazioni. Il suo influsso non si esercitò soltanto sui novellieri posteriori (Sacchetti, Masuccio Salernitano, Giraldi Cinzio ecc.), ma anche sui trattatisti (Bembo, Della Casa, Castiglione), che inserirono i loro dialoghi in una cornice mutuata dal Decameron, e soprattutto nel teatro del Cinquecento cui fornì trame comiche e romanzesche e procedimenti propri della retorica drammaturgica. Dal punto di vista critico, se i retori e i grammatici rinascimentali lodarono l’opera come modello di stile, fu soprattutto la critica romantica a rivendicarne il valore umano e la straordinaria varietà di motivi. Da De Sanctis, che ne coglieva lo spirito dei tempi nuovi paragonando la «commedia umana» di B. alla «commedia divina» di Dante, a Carducci, a Croce, a Momigliano, l’indagine critica è venuta via via sempre più acuendo e approfondendo i complessi significati storici ed estetici del capolavoro. A ciò si è accompagnato uno strenuo lavoro filologico e stilistico (Barbi, Schiaffini, Curtius, Auerbach, Branca ecc.). Né l’interesse accenna a diminuire, semmai riprende con angolazioni e prospettive nuove anche nell’ambito della critica più avanzata, da quella sociologica a quella narratologica, da quella formalista a quella strutturalista e semiologica.