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Pubblicata per la prima volta intorno al 1610, questa “Arte di fare fortuna” del medico, matematico, chimico, filosofo e poeta François Béroalde de Verville ha avuto curiose vicissitudini. Più volte ristampata nel Settecento, ammirata da Nodier, citata da Baudelaire, sembra essere stata confinata, da un secolo in qua, negli scaffali dei bibliofili, accanto ai bei volumi dorés sur tranche dei suoi numerosi imitatori settecenteschi o negli enfers delle biblioteche pubbliche. In Italia solo Giovanni Macchia – a cui si devono anche le pagine introduttive di questa edizione – sembra averne riconosciuto l’originalità e l’importanza; e il suo intervento è stato doppiamente benefico, perché sul libro di Béroalde ha saputo richiamare l’attenzione di uno scrittore arguto ed estroso come Augusto Frassineti, che si è cimentato nell’ardua impresa della traduzione. L’ossatura dell’opera non ha, di per sé, nulla di rivoluzionario: la materia, secondo i modi della novellistica italiana diffusasi con successo in Francia, è consegnata a una “cornice”. Ma al tema classico del simposio, pretesto al raccontare, Béroalde sovrappone quello allegorico, di ascendenza medievale, della “beata mensa” dei sapienti, rovesciando burlescamente il motivo per eleggere il disordine a fondamento di poetica: “dato che poi in pancia si rimescola tutto”, egli offre le sue portate alla rinfusa. E i protagonisti del convivio, i “favellatori” chiamati a reggere le fila del discorso, non sono gentildonne e nobiluomini in allegra brigata, ma personaggi antichi e moderni, famosi e sconosciuti, tra i quali Esiodo, Rabelais, Macrobio, Cesare, Lucrezio, Nicolò da Cusa. Sotto il segno dell’incoerenza e della licenza, essi fanno lievitare un indiavolato dialogo dei morti dove la digressione, l’interruzione, la scaramuccia verbale conducono il gioco. La struttura del racconto perde la sua autonomia, si sgretola e si scheggia e condensa in motti, battute, paradossi, aneddoti, indovinelli, “nonsense” e ammonimenti.
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