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Arlecchino a Parigi. Vol. 2: Lo scenario di Domenico Biancolelli. - Delia Gambelli - copertina
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Arlecchino a Parigi. Vol. 2: Lo scenario di Domenico Biancolelli. - Delia Gambelli - copertina
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Dettagli

1997
1 maggio 1997
880 p.
9788883190278

Voce della critica


recensione di Taviani, F., L'Indice 1998, n. 1

C'era nell'abbazia di Saint-Victor, a Parigi, nel Seicento avanzato, il canonico Santeul, poeta in latino, buongustaio non crapulone, bizzarro e affascinante, prudente con le signore, ardito nel pensiero. Un giorno lo visitò un omino in abito da passeggio, meticoloso, un po' solenne, che affettava un francese pronunciato alla maniera degli italiani. Voleva alcuni versi per Dominique Biancolelli, l'attore più prodigioso e spassoso del tempo, l'incarnazione di Arlecchino. Santeul domandò perché Arlecchino non si fosse presentato di persona. L'omino rispose che Biancolelli, per l'appunto, era lui. Il canonico non ci cascò: saltava agli occhi quanto quel signore fosse di tutt'altra pasta, di tutt'altra natura. E il signore si congedò con l'aria compunta di chi non s'offende né perde tempo. Ricomparve qualche giorno dopo, sempre posato e riservato, ma imbacuccato, questa volta, in un mantello che lo copriva fino ai piedi. Come entrò dal canonico Santeul, urtò nella porta, gli cadde il mantello, si scoprì nel costume arlecchinesco, fu d'improvviso rapido, acrobatico, ritmico, grottesco. Correva qua e là per la stanza. Aveva indossato la maschera e mutato natura: era proprio quello strano essere che alcuni classificavano fra le delizie del genere umano. Dopo il primo salto di sorpresa, il canonico-poeta cominciò a corrispondergli: correva anche lui, reagiva, si bloccava all'improvviso praticando alla men peggio la comunicazione muta della mimica e dell'azione. A un certo punto, gli venne in mente di inseguire l'omino adorabile e indiavolato agitando l'almuzia, la mantellina di pelliccia che faceva parte dell'abito dei canonici. Arlecchino, in risposta, lo fece saltare a colpi di cinghia. Improvvisarono insieme per un po'. Poi Biancolelli si tolse la maschera. Si abbracciarono come amici di lunga data. Ormai lo erano. Il tempo dell'improvvisazione infatti è molto denso.
Siamo alle pagine 271-74 del primo volume dell'imponente opera che Delia Gambelli dedica ad Arlecchino a Parigi. "Dall'inferno alla corte del Re Sole" si presentava, nel '93, come introduzione ai due tomi con cui il lavoro ora si conclude, con la pubblicazione dello "Scenario" di Domenico Biancolelli. Lo "Scenario" è un documento unico nel suo genere, ampio, fantasioso e preciso (è un documento di lavoro), nasce sotterraneo e diventa un crocevia delle scene, fra le geniali farse degli attori italiani e i capolavori di Molière, a Parigi, nel Grande Secolo di Luigi XIV, per la cui cultura il teatro era centrale.
Il lavoro di Delia Gambelli è una grande impresa condotta in molti anni, che porta i segni di diverse stratificazioni, con la competenza e la sensibilità d'una studiosa di letteratura che conosce anche il teatro dall'interno (la lezione forse più preziosa di Giovanni Macchia). La lunga storia di Arlecchino a Parigi ricapitola tutti i temi principali della Commedia dell'Arte, i suoi migliori enigmi, da quelli tecnici a quelli transculturali. Arlecchino (che diventerà il simbolo del teatro all'improvviso o Commedia dell'Arte) è soprattutto francese, anche se gli attori sono italiani, e inventano una patria bergamasca. L'arco storico e documentario dell'opera va dalla seconda metà del Cinquecento alla fine del secolo successivo. Circoscrive un microcosmo. E come ogni impresa storiografica fatta bene, andando a fondo nel passato sfocia al presente.
Mi fermerò soprattutto sullo "Scenario", i due ultimi tomi recenti. Era scritto, all'origine, per essere consultato, non era un libro da leggere, ma uno scartafaccio di promemoria professionali che Domenico Biancolelli, il "Dominique" dei parigini, trasmise al figlio attore, il quale, alla sua morte, lo lasciò al magistrato Thomas-Simon Gueullette. In questi due passaggi c'è già l'impulso che farà crescere il documento: un materiale di lavoro interno a una famiglia d'arte diventa un appassionante libro di lettura per un colto funzionario innamorato del teatro.
Gli attori italiani avevano la peculiarità - la capacità - di comporsi da soli le proprie parti in commedia, una volta fissato lo scalettone dell'opera. Questa autonomia drammaturgica è ciò su cui si basa la loro fama d'improvvisatori. Ma erano tanto poco estemporanei che il Biancolelli, professionista meticoloso, fissò sulla carta le sue composizioni autonome parte per parte (82 pezzi), sia per possedere bene i dettagli del proprio repertorio, sia - forse - per trasmetterlo agli eredi. Per ciò, lo "Scenario" è un documento unico: in realtà non è una raccolta di scenari, di canovacci, ma la collana delle sequenze e delle scene di un solo personaggio nella creazione individuale d'un attore. Vediamo solo le sue parti, e molte volte non sappiamo in quale tutto si inserissero. E dunque - dobbiamo ancora domandarci - in che modo gli appunti parziali d'un grande professionista han potuto trasformarsi in libro?
L'amore del magistrato Gueullette per il teatro era di tipo attivo, scriveva ad esempio scene e dialoghi per gli attori e non voleva essere pagato, non certo per altruismo, semmai per gratitudine, o forse perché sapeva quel che Proust spiegherà in maniera cristallina: che l'amore per gli spettacoli, se resta "inutilisé", se non fruttifica nell'azione, si ritorce sugli spettatori come un vizio o una malattia, una "boulimie qui ne les rassasie jamais", che li fa "célibataires de l'Art", ridicoli come i paperi quando cercano di volare. Così Gueullette, appassionato, si intestardì anche a tradurre in francese lo scartafaccio di Arlecchino. Quando la traduzione fu conclusa erano passati quasi un'ottantina d'anni dalla morte del Biancolelli a Parigi, nell'agosto 1688. E quando Gueullette morì, nel dicembre 1766, lasciò agli eredi la sua traduzione in due quadernoni manoscritti rilegati in cuoio, che fu lui a intitolare "Scenario". Curiosità preziose, passarono per diverse mani. Oggi sono conservati alla Bibliothèque de l'Opéra. Gueullette aveva pensato di farne un libro?
Restò manoscritto. L'originale italiano, di mano del Biancolelli, intanto s'era perduto. "Scenario", in francese, fu utilizzato e consultato, ma pubblicato solo nel 1969, non benissimo, da Stefania Spada presso l'Istituto orientale di Napoli, con il titolo "Domenico Biancolelli ou l'art d'improviser". La Gambelli l'ha fatto rinascere. L'ha ripubblicato direttamente dal manoscritto approntato dal magistrato, con un ampio corredo di notizie storiche, in maniera filologicamente ineccepibile e teatralmente accorta, annotando la ricorrenza dei lazzi, la loro rispondenza con altre scene italiane o francesi. Tant'è che in queste più di mille pagine di ricostruzioni storiche, documenti e note troviamo sminuzzato anche un importante saggio su Molière, la cui compagnia recitava, a giorni alterni, sulla stessa scena in cui recitavano anche Biancolelli e gli Italiens.
Attraverso lo "Scenario" e le note con cui la Gambelli lo vivifica si può penetrare in quell'impasto di cultura orale e cultura scritta, di attualità e antica tradizione del mestiere, di invenzione e bricolage, che caratterizza le compagnie dei professionisti della scena e obbliga la filologia teatrale ad essere più che altro un'archeologia, passando dallo studio semplice dei testi alla ricostruzione, tramite i testi, d'un vivo ambiente che faceva l'opera scomparsa, di cui restano reliquie.
Le trame, le battute e soprattutto le chiavi di commedia trasmigravano dall'uno all'altro spettacolo, da un testo a uno scenario, da una lingua all'altra, dall'Italia alla Spagna e alla Francia, dal gesto alla parola, da Biancolelli o Scaramuccia a Molière e ritorno, senza che in genere sia davvero possibile individuare chi abbia iniziato. Gli strumenti adatti agli studi dell'intertestualità qui non servono. Le date non datano nulla di preciso, perché un uso di mestiere non lo si può inchiodare alla data in cui è per la prima volta attestato. Gli scritti galleggiavano in un maremagno di sapere in azione, che finiva sulla carta di sbieco e per caso. Nel Seicento inoltrato era già un sapere secolare, perché le ditte teatrali italiane - e cioè le prime generazioni della Commedia dell'Arte trionfante - divennero complesse e rigogliose fin dalla metà del secolo precedente. Altre ditte della scena erano cresciute in Spagna, in Francia, in Inghilterra. Malgrado la differenza degli idiomi e dei paesi, era una cultura sostanzialmente comune. Fece qualcosa di unico: creò un'arte che faceva del commercio un maestro e scoprì tecniche espressive attraverso la comprensione delle dinamiche che stanno sotto i consensi e i dissensi dei pubblici, gli incassi più o meno alti. A volte sboccò in letteratura.
La Gambelli naviga fra questi problemi, non discute per l'illusione di risolverli, ma per districarvisi il poco possibile. Anzi: la cosa più interessante è che districarsi non vale poi tanto. Vale più capire il carattere dell'intrico. Perché l'incertezza che continuamente risponde alle domande filologicamente obbligate è in fondo la percezione a distanza di un vivo sistema o organismo di relazioni, in cui non è vero che la letteratura non abbia spazio, ma dove il suo spazio non è tutto, né è privilegiato. Privilegiarlo noi, dato che possiamo lavorare solo sugli "scripta manent", sarebbe tradire la natura dei documenti. La fedeltà alla filologia sarebbe insomma antifilologica. Ma in compenso è intellettualmente eccitante confrontarsi con una letteratura che non si comporta con criteri letterari, e che è sempre "in statu nascenti".
Lo spazio letterario è molto importante per il teatro, ma le vie per cui vi si spalanca sono ogni volta un paradosso. Il modo in cui lo scartafaccio di Domenico Biancolelli è divenuto un gran bel libro costituisce un caso estremo e insieme esemplare, che ha implicato successivi passaggi di stato, nell'arco di generazioni distanti: c'è voluta la dignità professionale e la precisione d'un grande attore; la passione attiva d'un grande spettatore come il magistrato Gueullette; le biblioteche, le sale manoscritti e i loro studiosi. Ma il risultato, alla fine, non ci fa mangiare vecchia polvere. È un libro d'oggi. La Gambelli in realtà ha condotto a termine - non l'ha solo studiato - il progetto di Gueullette.
Alcuni di coloro che hanno lavorato sulle pagine del Biancolelli-Gueullette hanno lamentato che di certe commedie non si capisca affatto la trama. Sono gli stessi che leggono uno scenario come una commedia liofilizzata. Ma questa lacuna non c'è: le parti d'Arlecchino sono molto più dettagliate di quanto non siano gli scenari e persino di quanto non siano i testi delle vecchie commedie, dove delle parole non manca nulla, ma dell'azione quasi tutto. Spesso emerge, per esempio, che le diverse scene inventate da Biancolelli per una determinata commedia hanno fra loro una coerenza che non dipende dalla loro funzione e dalla loro posizione drammaturgica. La Gambelli parla, in questi casi, di unità d'azione all'interno della parte. A me pare piuttosto una coerenza di tipo musicale, come se, al di là del loro significato, i lazzi e le scene fossero anche fra loro intonati, quasi variazioni attorno a un tema. È una pratica non evidente ma non rara nella drammaturgia dei teatri professionali europei della fine del Cinquecento e del Seicento: sceneggiano l'opera tenendo conto, oltre che degli obbligati legami narrativi, anche di legami puri, una sorta di danza, dove certi oggetti o certe azioni si rispondono, cambiano di segno, hanno peripezie pur non collaborando alla storia. È uno di quei casi in cui, attraverso la letteratura, il teatro e la vita possono ancora far irruzione nella nostra stanza. E, malgrado tutto, l'omino lascia ancora cadere il suo mantello.


recensione di Piqué, B., L'Indice 1998, n. 1

Tra le pagine severe delle "Pensées" di Pascal ecco far capolino, come intrusi, due personaggi della Commedia dell'Arte: "Scaramuccia che non pensa che a una cosa. Il Dottore che parla un quarto d'ora dopo aver detto tutto, tanto è pieno del desiderio di parlare". Se appare inaspettata l'allusione metaforica di Pascal alle due maschere per evocare due opposti stati d'animo, meno stupore destano forse i frequenti ricorsi della brillante Mme de Sévigné a espressioni e immagini prese in prestito dagli Italiens, come, per fare un solo esempio, il colorito paragone tra il disordinatissimo "cabinet" della figlia e l'abito rattoppato di Arlecchino. La diversità stessa dei contesti in cui figurano queste citazioni attesta la profonda penetrazione della Commedia dell'Arte nella cultura secentesca e il perdurare del suo successo in età classica. Un successo che, proprio se si pensa alla seconda metà del secolo, non manca di stupire: nel regno del verosimile, delle "bienséances", della misura e del "naturel", irrompeva l'inverosimiglianza della balordaggine arlecchinesca, con i suoi eccessi e le sue oscenità, la sua contaminazione fantasiosa di generi e stili, il gioco iperbolico e trasgressivo dei suoi lazzi.
Condotta con una serietà filologica e un'erudizione ammirevoli, garbatamente raddolcite da un soffio di nostalgica partecipazione affettiva, l'impresa di Delia Gambelli ha, fra tanti altri pregi, quello di farci capire le ragioni varie e lontane di quel successo. Innanzitutto, la perizia degli Italiens nell'adeguarsi alle esigenze del pubblico attraverso modifiche del repertorio, dosaggi nuovi degli elementi comici e linguistici, ammicchi all'attualità. Di questi adattamenti lo "Scenario" di Biancolelli è registro fedele, testimone del lento processo di metamorfosi - ma anche di iniziale declino - che caratterizza il teatro all'improvviso nel secondo Seicento, allorché si fa più urgente, appunto, una risposta al codificarsi del gusto classico. Ma il permanere del favore del pubblico, nonostante le riserve avanzate per esempio da un Saint Évremond e anticipate anni prima da Malherbe, trova altri motivi in aspetti più intrinseci dell'Improvvisa.
Pur fra tante dissonanze, si avvertono, nella Commedia dell'Arte quale la interpretò il grande Dominique, sottili consonanze con lo spirito del classicismo: la rigorosa e coerente tecnica compositiva, che la Gambelli mette bene in luce nei testi di Biancolelli; e soprattutto quell'abilità nel variare all'infinito per innovare "topoi" logori che è alla base stessa dell'estetica classica; quella capacità "di fare teatro con niente", che è ideale di elegantissima stilizzazione (e torna in mente il progetto raciniano di fare "quelque chose de rien").
Infine, dal poeta d'inizio secolo Isaac Du Ryer a due commediografi tardi come Regnard e Dufresny, per i quali il Théâtre Italien rappresentava "la fonte della gioia e l'asilo dei dispiaceri privati", il potere terapeutico dei lazzi di Arlecchino è un "Leitmotiv" ricorrente in tutto il Seicento. E quella loro virtù lenitiva è forse la ragione più immediata, ma sostanziale, del consenso di cui godettero in Francia, e del fascino che ancora oggi esercitano su noi, queste "pezze" che ne sono rimaste.

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