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E' vero che il mio compagno è Serbo e io adoro il suo Paese, ma è con estrema obbiettività che giudico questo breve testo di Handke un inno alla VERITA'.
Recensioni
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scheda di Rastello, L., L'Indice 1997, n.10
Tutto sembrerebbe sospeso in questo libro, in primo luogo il giudizio. Si invoca il silenzio su quanto è avvenuto nelle valli a ovest della Drina, si cerca addirittura di evitare le domande, in nome delle "terze cose", quelle tracce di senso criptato dimenticate ai margini dei gesti quotidiani. Handke nell'estate del 1996 torna sui suoi passi serbi e va a visitare, per la prima volta, brandelli di Bosnia dilaniata, a Visegrad e a Srebrenica. Vi porta il dubbio: forse quelle stragi non sono avvenute, forse l'informazione mondiale è manipolata a favore di coloro che appaiono vittime, forse... E vi porta la certezza: altre stragi le presunte vittime hanno compiuto, coperte dal silenzio complice del mondo. Migliaia di serbi assassinati di cui nessuno ha parlato. Il massacro ("presunto", naturalmente) di Srebrenica è una vendetta. Su questo i dubbi sono molto meno pressanti. Handke, del resto, si sente investito di una missione di verità, il suo compito è fare da contrappeso all'opinione mondiale che, secondo lui, ha criminalizzato i serbi (Handke non legge i giornali di sinistra, i giornali inglesi, i giornali francesi e, soprattutto, le agenzie delle Nazioni Unite). E una missione così importante vale qualche approssimazione. Così ci parla di sé, della sua voglia di non domandare, del suo sguardo, dei suoi luoghi d'elezione e di provenienza. E, con quindicimila parole, annuncia il silenzio.
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