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Si nota che l'autore è una persona colta. Però, onestamente, il suo partito, quello degli Antichi, era improponibile nel Seicento, quando pochissime persone sapevano il Greco. Winkelmann, nel Settecento, scambiò delle copie romane semplificate per autentici capolavori greci. Quando, ai primi dell'Ottocento, giunsero a Londra i marmi del Partenone, li presero per dei falsi, tanto diversi erano da quello che si aspettavano. Oggi, 2012, molti studenti non sanno che le statue antiche erano pitturate e, le più preziose, dorate. Il mondo antico era molto diverso da quello che si pensa.
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L'origine dell'allegoria che detta il titolo al saggio di Marc Fumaroli sulla disputa degli antichi e dei moderni risiede in un passo della Battaglia dei libri di Jonathan Swift. Il grande autore irlandese fa dire a Esopo che gli antichi (e dunque i loro partigiani) sono come le api che prendono dalla natura il miele prodotto; mentre come i ragni i moderni traggono dai loro stessi escrementi di che filare la propria scienza. Contrappone a chi nel creare si riallaccia a una tradizione antica (sentita tuttavia sempre come presente in quanto in relazione con la natura umana), chi spezzando questo legame si affida esclusivamente alla propria esperienza. Già dal titolo scelto si evince dunque che, nella disputa che infiammò per una cinquantina d'anni l'Europa colta, Marc Fumaroli ha scelto le ragioni del partito degli antichi e degli autori che a esso associa: i suoi eroi sono Boileau contro Perrault, Rousseau contro Voltaire e persino Caylus contro Diderot. Perché così risolutamente sposi le loro tesi, lo si capisce chiarendo il significato che attribuisce alla disputa.
Cominciamo dai fatti. La disputa degli antichi e dei moderni, dopo varie avvisaglie, scoppiò nella cultura francese a fine Seicento. A scatenarla fu Perrault, che rivendicò a più riprese il primato del secolo presente a scapito di tutta la tradizione greca e romana. Tale preferenza si poggiava su un fondamento politico: l'esaltazione del re di Francia che aveva il merito di avere portato la civiltà letteraria al suo massimo splendore. Così nel 1674 Perrault osò preferire l' Alceste di Lulli e Quinault alla tragedia di Euripide giudicata piena di cose goffe, assurde e intollerabili per un pubblico moderno. Le risposte di Racine e di Boileau non si fecero attendere. Se l'Académie era in larga parte schierata con Perrault, i suoi avversari seppero conquistare, oltre al consenso di autorevoli letterati, soprattutto quello del re. Nel 1687 Perrault torna alla carica, spalleggiato da uno scrittore molto più abile di lui. Giornalista brillante, polemista pungente, Fontenelle già prefigura non solo gli argomenti ma anche lo stile, amabile, ironico, mondano che il partito dei philosophes adopererà a favore della causa dei moderni. La disputa si riaccende ancora nel Settecento concentrandosi intorno alla contestazione di Omero e della sua traduttrice Madame Dacier. Ma ormai la battaglia è stata sostanzialmente vinta dai moderni: la nuova stagione letteraria, che ha i suoi protagonisti in Voltaire, D'Alambert, Diderot, si scatena in una critica serrata della tradizione e dei suoi valori. L'annotazione che a inizio Ottocento Joseph Joubert fa nel proprio diario si rivela dunque vera: "L'Antichità finisce nel 1715".
Di questi episodi decisivi della disputa, Fumaroli mostra antecedenti e sviluppi. A monte, nella cultura francese illustra una polarità tra Montaigne e Cartesio, fondata su valori che gli paiono analoghi a quelli in gioco nella disputa; soprattutto nella cultura italiana seicentesca individua un gruppo di letterati che riflette sul confronto tra antichi e moderni. Boccalini, Tassoni, Lancellotti, inclini a riconoscere il primato dell'antico, sembrano anche animati da preoccupazioni politiche, specialmente verso l'invadenza spagnola. A valle, rintraccia le ragioni degli antichi, sopravvissute da una parte nella condanna rousseauviana della civiltà che si è allontanata dallo stato di natura, dall'altra negli studiosi dell'antichità, da Gibbon a Winckelmann. A queste grandi figure di antiquari che hanno lasciato tracce indelebili nella cultura europea, egli aggiunge il conte di Caylus, generalmente considerato, oltre che banale pornografo, operoso quanto confusionario collezionista e divulgatore di antichità. Il cui encomio comporta soprattutto la sommaria liquidazione di Diderot, suo avversario. (Da uno storico delle idee come Fumaroli, ci si aspetterebbe tuttavia ben altra considerazione verso uno scrittore le cui posizioni non gli piacciono, ma la cui grandezza letteraria resta incontestabile) Dopo la Rivoluzione francese, la disputa perde ogni senso. Ormai tutti gli autori, persino il cattolico Chateaubriand, sono condannati alla solitudine del "ragno", alla rivendicazione del proprio io come fondamento della scrittura. Mentre delle api si è appropriato il nuovo despota, Napoleone, per il proprio stemma.
Degli antichi Fumaroli esalta il sentimento di far parte di una repubblica delle lettere costituita da grandi spiriti: sentimento alimentato dallo studio e dall'amore per le arti e che si fonda sul rispetto della tradizione e delle sue istituzioni politiche e religiose. Nei moderni già intravede invece le degenerazioni della cultura di massa: l'arte come consumo, l'ipertrofia dell'io del letterato, la tirannia dell'opinione, il primato dell'economico. Le api e i ragni costituisce dunque una requisitoria contro l'attacco portato dalla cultura moderna, razionalista, laica, sperimentale, "democratica" (nel senso di allargata ai non specialisti), animata da uno scrupolo di eguaglianza, contro la cultura dell' ancien régime , erudita, aristocratica, rispettosa dei troni e degli altari. In quel lungo processo che portò alla nascita della modernità sulle ceneri della cultura affermatasi in Europa con il Rinascimento e la Riforma cattolica (da Fumaroli sentite strettamente contigue), la disputa costituisce una tappa decisiva. Lo aveva osservato già Paul Hazard in La crisi della coscienza europea 1680-1715 , studio che segnò nel 1935 una svolta importante nella storiografia letteraria. Fumaroli non cita mai il saggio di Hazard, che tuttavia costituisce la tacita controparte della sua argomentazione. Mentre Hazard, illustre erede della tradizione umanista e illuminista, coglieva le conseguenze positive della svolta, per Fumaroli essa costituisce un trauma da cui l'Europa esce per sempre impoverita. È la causa dei suoi mali.
Il fascino delle argomentazioni di Fumaroli è grande. Riesce a coniugare, come da tempo non si vedeva più nella storiografia letteraria, idee forti che offrono interpretazioni generali della storia europea, e una attenzione erudita e vivace per l'episodio, per la singola personalità, per la dinamica curiosa di una disputa di corte o di accademia. Certo, i partigiani degli antichi non potevano avere migliore avvocato. Ma dalla parte dei moderni resistono alcune ragioni non disprezzabili: anche a prescindere dalle grandi scoperte scientifiche e dalle grandi riforme morali e giuridiche (Voltaire sull'affare Calas, Beccaria...), dalle straordinarie realizzazioni poetiche (a cominciare da Keats e Mallarmé, "ragni" ricordati da Fumaroli stesso) e artistiche (la pittura otto-novecentesca è prevalentemente anti-accademica), basterebbe ricordare un genere letterario "moderno" per eccellenza, il romanzo. Che cosa sarebbe la letteratura europea degli ultimi due secoli con tanti onesti antiquari in più e senza romanzieri? con numerosi salotti in cui si coltiva una conversazione colta e squisita tra persone superiori e senza i giornali (per quanto screditati possano essere)?
Nella sua perorazione antimoderna Fumaroli si associa due studiosi eminenti, Arnaldo Momigliano e Leo Strauss, in quanto per entrambi "la modernità è la figlia scapestrata di una critica in ultima analisi deleteria, che l'ha liberata dalla fede solo per gettarla più agevolmente nei baratri del nichilismo e dell'irrazionalismo". Non sono sicuro che la rivalutazione da parte di Momigliano della tradizione antiquaria ed erudita implicasse proprio una simile condanna del razionalismo illuminista e delle sue conquiste. Essa mi pare di certo corrispondere al pensiero "anti-illuminista" di Strauss, che attualmente conosce una particolare fortuna nei circoli neoconservatori americani. Lungi da me volere arruolare uno studioso come Fumaroli in un partito. Vorrei soltanto suggerire fino a che punto si pongano al cuore della riflessione contemporanea le questioni affrontate in questo libro e lamentare che da parte "conservatrice" si mostri una capacità maggiore di ridiscutere la storia occidentale che non da parte degli epigoni di Foucault.
Francesco Fiorentino
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