Indice
Le prime frasi del libro
Ci siamo. È il momento.
Questo è l’ultimo istante di silenzio prima che tutto cominci. Il pubblico tace, il pubblico aspetta. Aspettano anche loro, qui davanti a me. I musicisti. L’orchestra.
L’attesa è una magia che non si dovrebbe interrompere mai. Sto per sollevare le mani. Preparo il segnale dell’attacco. Tra poco il primo violino mi fisserà e comincerà a suonare. Il flauto entrerà dopo tredici battute di pausa. Inizierà a contarle nel silenzio della sua mente e un attimo prima io dovrò voltarmi verso di lui, per partecipare del suo ingresso dentro questo nostro piccolo mondo d’armonia. Guai a dimenticarsene. Lo abbiamo fatto in prova, sempre, ogni volta, e quel che accade in prova tra me e questi uomini e donne non si può più cancellare.
Se per una volta non guardassi il flautista, lui potrebbe essere autorizzato a farsi prendere da un dubbio. Potrebbe immaginare di aver contato male le tredici battute di pausa, magari di averne saltata una; potrebbe decidere di non cominciare a suonare, potrebbe pensare che c’è qualcosa che non va. Io devo saperlo perché sono qui per lui, per lei, sono qui per loro; io sono qui per tutti. Il dubbio di una persona sola sarebbe destabilizzante, non dico per me, ma per l’orchestra intera.
Il silenzio. Ecco. Mi prendo ancora un attimo. Il silenzio rassicura. Wilhelm Furtwängler, direttore tedesco che amava Wagner, viveva la ricerca del momento esatto in modo complesso, dolorosamente. Dalla prima fila gli strumentisti dovevano sussurrargli: «Forza maestro, forza».
Ogni volta che come adesso sono sul podio, sento che mi sto preparando a gioire, e non da solo, ma come se ci fosse un rito da celebrare, come se fosse un alleluja. È davvero molto strano se ripenso a tutte le mie prime volte. A Sanremo fu nel ’90, avevo due pezzi in gara: La nevicata del ’56 di Mia Martini e Tu… sì di Mango. Gabriella Carlucci, la presentatrice di quell’anno, avrebbe dovuto annunciare il mio nome e a quel punto avrei dovuto accennare un inchino. Avevo il terrore che lei o Johnny Dorelli potessero farmi qualche domanda. Mi faceva paura, in realtà, qualunque cosa diversa dal dirigere. Quando arrivò il momento e mi voltai verso la telecamera, scoprii che una vena sotto il collo batteva un ritmo furioso. Eppure, nell’istante in cui diedi di nuovo la schiena allo show, trovandomi l’orchestra davanti, la vena all’improvviso smise di fremere. Era bastato un diverso orientamento cardinale, un leggero spostamento, una geografia differente per ritrovarmi. Quello che salutava, preso da una certa agitazione, era un uomo di spettacolo. Ma l’altro – che meraviglia – l’altro era solo un uomo tranquillo che voleva fare il suo lavoro, senza una telecamera, senza conduttori, senza un regista che imponesse di cominciare entro cinque secondi.
Eppure, arriva sempre questo momento, l’ultimo istante di silenzio, quello in cui ci siamo solo noi. Io, l’orchestra e la musica. Loro aggrappati agli strumenti, come fossero zattere che salvano da un naufragio. Io con lo spartito delle mie espressioni, le mie mani, i miei umori che devono accordarsi al brano. Un ultimo istante di intimità.
Ci siamo, ora lo stanno dicendo.
«Dirige il maestro Peppe Vessicchio.»
E allora, forza, possiamo cominciare.