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Hakan Gunday è stata una bellissima scoperta! Un libro dai temi molto attuali, forte e che tiene con il fiato sospeso in ogni sua pagina. Lo consiglio.
Il romanzo di Gunday racconta della discesa agli inferi di un bambino costretto dal padre ad occuparsi del traffico dei migranti. In un crescendo di tragici episodi, il libro appare diviso in due parti di cui la seconda, in apparenza meno “avventurosa”, espone le ossessionanti conseguenze di quanto accaduto in precedenza. La prosa dell’A. è incalzante, energica, introspettiva e lirica allo stesso tempo. Tanti i passaggi che viene spontaneo rileggere. Una scoperta stupenda.
libro intenso e molto forte come un pugno nello stomaco. la pazzia come unica compagna.....
Recensioni
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(...). Un romanzo duro, complesso, ambizioso nella costruzione ma di avvincente lettura per la realtà che illumina tra le pieghe dell’attualità: quella dei fantasmi che sono i profughi migranti in carne e ossa, nascosti nei tir durante l’inferno del viaggio che li porta dalle frontiere orientali dell’Anatolia agli scafisti greci, in cerca di un paradiso tutt’altro che garantito. Daha (“ancora, di più”) è l’unica parola che sanno dire in turco: ancora acqua, cibo, aria... bisogni primari di sopravvivenza appesi al filo dei loschi interessi dei trafficanti a trasportare senza perdite la merce numerata ricevuta in consegna. Scritto in forma di confessione da parte del protagonista-narratore, figlio di un trafficante di esseri umani di nome Ahad (daha al rovescio), ha l’impatto di un perturbante Bildungsroman postmoderno il racconto di questo sottomondo senza leggi visto attraverso gli occhi del piccolo Gazâ: “Mio padre cercava un apprendista (...) divenni un trafficante di esseri umani. A nove anni...”. E a nove anni fa morire asfissiato un giovane profugo afgano, chiuso nel camion in cui aveva dimenticato di accendere il ventilatore. Vittima e al tempo stesso aguzzino, nel suo ruolo di custode della cisterna sotterranea in cui sono imprigionati i migranti in transito, ne fa un campo d’osservazione antropologica delle dinamiche spontanee o provocate all’interno del gruppo, che diventa il laboratorio sperimentale da cui trae conferma di una visione della società e del potere come guerra di tutti contro tutti, dove la sottomissione al dominio è fondata sulla paura. Uno spartiacque del racconto è segnato dall’incidente in cui il loro camion, con tutto il carico umano trasportato, cade in un precipizio. Unico sopravvissuto, liberato dalla morte del padre, il giovane inizia una nuova vita, legge, studia, ma non riesce a evitare il risucchio nel cuore di tenebra del suo passato. Attraversa il delirio della follia, della droga, della violenza. A salvarlo sarà infine l’unico barlume di coscienza non acquietata che aveva continuato a farsi sentire in lui attraverso l’origami, una rana di carta, ricevuto in dono dal gentile afgano morto per causa sua. Il cui nome, Cuma, in turco Venerdì, appare un richiamo cifrato al Robinson, più che di Defoe, di Céline: un modello riconosciuto, quello del Voyage, che però apre uno spiraglio meno nichilistico e misantropico al termine della notte raccontata nel suo viaggio. Una storia che mescola inverosimiglianze, eccessi visionari con qualche ridondanza nella seconda parte, a spaccati di realismo nella messa a fuoco di una condizione di nuova schiavitù. Il modello celiniano in parte addomesticato vale anche per lo stile di scrittura di Günday, basato su un parlato ellittico, iperbolico, sarcastico che trova la sua forza nell’incalzante ritmo narrativo sincopato, ben reso nell’ottima traduzione.
Recensione di Santina Mobiglia
Il viaggio di un bambino cresciuto troppo in fretta alla ricerca dell’innocenza perduta.
Un romanzo travolgente sulla schiavitù moderna, sulla necessità di sapere, e sperare ancóra, lottare ancóra.
La prima parola era solfato, la seconda morfina. Ed eravamo nati entrambi nello stesso luogo: il dolore. Perché non era stata mia madre a darmi alla luce, ma i dolori del parto. Non ero nato per desiderio, ma per dolore. Avevo esalato il mio primo respiro tra contrazioni e dolori che mi avevano lasciato una macchia indelebile...
Ogni parte di me era dolore. La mia anima, il mio corpo, tutto quanto. Lo avrei capito non appena fossero entrate in circolo le prime gocce di solfato di morfina. No, non ero un bambino nato dai dolori di sua madre!
Gazâ ha nove anni quando entra nell'inferno del mercato di schiavi. Ha nove anni e ha imparato due cose molto importanti: la prima si chiama sopravvivenza. La seconda si chiama indifferenza, ed è la causa della prima. L'indifferenza di fronte alla merce che ogni giorno Gazâ e suo padre scaricano e caricano dal camion di famiglia. Merce putrida e rumorosa: si chiamano esseri umani, o forse pezzi di carne indistinta, figli a loro volta di altri superstiti, bastardi che si sono massacrati in guerra, che si sono ammazzati per la siccità, sputati addosso per le epidemie, strappati il salvagente di mano pur di rimanere a galla. Perché questa è l'unica legge degli uomini senza dio: o tu, o io. E Gazâ lo ha imparato subito, così come ha imparato subito a ignorare tutte quelle bocche e quegli occhi che implorano la sua mano: Daha, ancóra! Daha, ancóra!: l’unica parola turca che quell'ammasso di corpi sporchi, i migranti clandestini, riesce a pronunciare con le loro bocche fetide. Ancóra acqua! Ancóra cibo! Ancóra vita...
Non è possibile stabilire a quando risalga il commercio degli esseri umani. Se si pensa che per intraprendere una simile attività bastano tre persone, si potrebbe andare molto indietro nella storia dell'umanità. L'unica frase utile di un libro utile che ho letto anni fa era questa: "Il primo strumento utilizzato dall'uomo è un altro uomo" [...] Quindi, se si mette la prostituzione al primo posto, si può dire che il commercio di esseri umani è il secondo mestiere più antico del mondo!
Certo, non avevo idea che fossimo gli eredi di una tradizione professionale tanto antica. Io mi limitavo a sudare costantemente, cercando di portare a termine gli ordini che mi impartiva mio padre.
Gazâ ha nove anni ed è un bambino turco. Il suo Paese è un edificio sporco e fatiscente che funziona da dogana di smistamento per tutti quei migranti che arrivano da est per riempirsi gli occhi di speranza e di sogni guardando verso ovest, «un ponte antico, con un piede scalzo a Oriente e l'altro infilato in una scarpa a Occidente, da cui transita qualsiasi merce illegale.» La Turchia è un imbuto con cui nutre i suoi cittadini, rischiando di farli ingozzare: vengono ingurgitati clandestini per poi essere vomitati quasi interi dall'altra parte.
Gazâ è un bambino molto intelligente, il più intelligente della sua classe. Eppure la sua vita ha lo stesso perimetro di vicolo della Polvere e della cisterna di Ahad, il padre. Cresciuto nell'eterno tormento dell'abbandono della madre morta dandolo alla luce, e che avrebbe voluto seppellirlo non appena venuto al mondo, il bambino vive nel dispotismo di un padre assassino, imitando la sua cattiveria e facendosi egli stesso tiranno all'interno delle piccole società di clandestini che si nascondono nella cisterna. Ma quando il seme della cattiveria viene piantato nel cuore di un uomo, nient'altro può fare se non spaccare le zolle del cuore e crescere, salendo fino alla gola, fino al cervello.
È in questo modo che Gazâ s'infetta: la sua infezione si chiama spietatezza e disumanità. Si apre una piaga che lo immobilizza sempre più. Una piaga putrida e in decomposizione, che gli divora ogni lembo di carne. Ogni lembo di anima. Una notte di pioggia, un incidente con il camion di Ahad lo porterà dritto all'inferno, luogo in cui inizierà l'asportazione di ogni sentimento dal corpo di Gazâ. Bastano tredici giorni bloccato tra le decine di cadaveri di clandestini, tredici giorni di immobile agonia, perché il ragazzino possa provare l'esperienza della decomposizione, per non tornare mai più indietro.
Ogni cellula, ogni nodulo dotato di sentimento viene intossicato, il cervello di Gazâ va in embolia e inizia l'interramento nella sterilità dei sentimenti del giovane turco. Le sonde del dolore iniziano ad asportare tutto: l'infanzia, l'umanità, ogni sogno è clampato, ogni speranza è esportata. Resta un corpo intrappolato tra i morti e le larve. Resta un uomo privo della sua anima. Gazâ si è ammalato di asocialità e non tornerà mai più indietro. Non c'è più un domani, non c'è più una madre, nè un padre, entrambi morti sepolti, non ci sono più tutti quei sogni ammassati in una cisterna, sogni che erano quasi riusciti a contagiare il piccolo Gazâ, che avrebbe voluto guardare cosa ci fosse di tanto bello al di là del confine turco. Resta carne in decomposizione. Non resta altro.
Solo di una cosa non si è mai dimenticato Gazâ in tutti questi anni: una rana di origami che porta in tasca da sempre, e la voce di un afgano di nome Cuma, Venerdì, l'unico amico che mai abbia fatto un dono al piccolo turco. Un dono gratuito. Gli ultimi anni della vita di Gazâ saranno improntati a questo: "riportare" Cuma a casa sua, in una sorta di viaggio migratorio al contrario, verso quelle terre di fuoco da cui tutti scappano... Forse un viaggio-espiazione, a ritroso nel dolore che quel turco tanto aveva disseminato intorno a sè.
Pensare è compito mio, Gaza, non tuo.
E qual è il mio compito allora?
Uccidermi.
Dici sempre così! Non dirlo più, per favore!
Va bene... Ma solo perché hai detto per favore.
Grazie... Adesso come ti senti?
Come sempre.
E vale a dire?
Come un origami a forma di rana!
Cesare Pavese scriveva nei suoi Dialoghi con Leucò: «vien da pensare che tutto sia intriso di sperma e di lacrime». Siamo in Turchia nel 2016 e Hakan Günday ha davvero poche cose in comune con un Pavese che lasciava queste parole apocalittiche, poco tempo prima di suicidarsi. Eppure, qualcosa di terribilmente pessimista e schiacciante, li accomuna. Qualcosa che infastidisce, che tocca antri e coscienze, che attenta alle fondamenta di terreni morali ben saldi, occidentali e perbenisti. Vien da pensare che resti proprio questo: corpi fatti di carne evanescente e dolore.
Ancóra non è un bel libro. Tutt'altro. È un libro macchiato e sporco, pervaso da un sadismo latente, quell'affanno che fermenta nella natura umana, che fruga nelle nostre tenebre, che ci accarezza il volto sul cuscino, la notte. Ancóra si prende il diritto di riempirci il corpo di piaghe. E lo fa senza chiedere scusa. È un'opera quasi indicibile, un ammasso di violenza. Eppure, di nascosto dal senso comune, mentre leggiamo quelle parole incrostate di disumanità, ci capita qualcosa che ce ne fa chiedere ancóra. Dove possiamo arrivare? Fin dove abbiamo il coraggio di strisciare? Vogliamo conoscere i nostri mostri e non siamo appagati fino a che non tocchiamo la vertigine dell'indicibile. Daha, ne vogliamo ancóra...
A cura di Wuz.it
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