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M. Ariot parla di sé senza svelare nulla di sé, attraversa il suo dolore come fosse il dolore di tutti, rimane dentro le cose che racconta osservandole con spietata analiticità dall’esterno: “Abbiamo spalancato un buio nella notte, è un paesaggio: di riflesso in riflesso l’occhio preme al di là delle cose, oltre ogni tana, strati retinici disposti a capitolare un mondo dentro un mondo”. Luce-buio, aperto-chiuso sono dicotomie che percorrono ogni pagina, sottoponendo la scrittura alla dura minuziosità dello sguardo, fisico e mentale. Come si alternano chiaro e scuro, così nella stessa pagina si contrappongono versi e prosa, differenziati anche tipograficamente tra tondo e corsivo, quasi che l’abbandono musicale della poesia richiedesse continuamente il controllo razionale di un’indagine logica. Il libro è un diario scandito nei 28 giorni e notti delle fasi lunari, e cadenzato da foto in bianco e nero che serbano una velatura d’ombra a sfumarne i contorni. L’autrice ambisce infatti a mantenere l’oscurità del dettato, in un tono quasi oracolare che oscilla tra volontà di dire ed esigenza di nascondere, o perlomeno di confondere le tracce, sospettosa di qualsiasi rivelazione esplicita: le metafore di cui è fittamente intessuta la sua scrittura servono appunto ad allontanare la concretezza di una realtà dolorosa, ferita. Scrive con ostinazione del corpo, esplorandone sussulti e rigidità, ma senza esibire alcuna retorica sentimentale: proprio con la lucida scrupolosità della dissezione suggerita dal titolo della raccolta. Attraversando questa poesia dell’incomunicabilità, dell’infelicità, dell’impotenza, Ariot cerca tuttavia lo scampo di una luce da scomporre e ricomporre anatomicamente. Anche nel male, apre alla possibilità di una sospensione del male, uscendo per un attimo dai propri confini di sofferenza, aderendo alla biologica autenticità di ciò che ci circonda.
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