Mancava alle scene letterarie da alcuni anni, Vincenzo Esposito, autore di due libri usciti per l'editore Avagliano: il primo nel 1999, La festa di Santa Elisabetta, Premio Calvino e Premio Foyer des Artistes, e il secondo nel 2001, La quinta stagione dell'anno. Dunque, tanti anni e una lunga maturazione di scrittura per questo nuovo romanzo, L'amico francese, edito da Graus, che si muove sulla scia dell'eleganza narrativa e della ricerca dei libri procedenti. Vincenzo Esposito è narratore di memoria e di memorie e, se in La festa di Santa Elisabetta la scia del ricordo di una lontana giornata di festa e d'amore avvolta nel passato della nonna del narratore si snodava proustianamente in forma circolare, poiché ogni ricordo va perfezionato e modellato, aggiustato con il trascorrere del tempo e precisato dalla focalizzazione dei dettagli, in L'amico francese una nuova tessera di memoria giovanile si colloca cercando un ordine lineare degli eventi che, pure, nascondono un mistero, un indicibile. Esposito è scrittore preciso, di forma (cosa abbastanza rara oggi), capace di ricamare con perizia uno stile sospensivo che ci riporta agli anni sessanta, nei quali un omonimo protagonista, Vincenzo, frequenta l'ultimo anno di liceo. L'ordine sereno e a volte malinconico della vita viene però spezzato da un arrivo inatteso: un nuovo compagno di classe, Jean-Claude, catalizza l'attenzione. L'amicizia fra i due ragazzi è inevitabile ma anche ombreggiata di non detti: un segreto, per l'appunto, che la narrazione pian piano svelerà. La bellezza dell'Amico francese è nell'occhio del narratore che gira intorno agli eventi come una camera a spalla, continuamente pronta a cullarci nel movimento e poi a scuoterci mostrando un'inquadratura inaspettata: "Conobbi Jean-Claude, il mio amico francese, alla metà degli anni Sessanta, il primo giorno di scuola dell'ultimo anno di liceo, la stessa mattina in cui Pasquale Viviano, il mio compagno di banco, da un momento all'altro, durante l'ora di filosofia del professor Vitiello, dopo aver lanciato un grido lacerante, si era accartocciato su se stesso e aveva cominciato a tremare e a emettere degli strani singhiozzi simili a grugniti, facendomi balzare in piedi dallo spavento". L'incipit è una promessa che il romanzo mantiene: asciutto eppure minutamente descrittivo, ci porta dentro il gorgo della memoria. C'è un'eco di festa in ogni frase, in ogni svolta, così come forse sembra di ricordare a molti per la propria infanzia, e c'è un'amicizia di temperatura romantica, proprio nel senso ottocentesco della parola, come oggi, forse, le amicizie fra ragazzi non riescono più a essere (o forse sono ma mancano le parole per dirlo), nonostante la musica di fondo sia quella di Tenco (altissima temperatura romantica) ma anche quella dei Beatles e dei Rolling Stones. C'è una necessaria storia d'amore con la giovane Angela. Le voci riportate in gergo o in dialetto ("Gianclò, sì proprio na scartina", "Ho fatto una grezza"), i luoghi del mondo immaginario che Esposito ha costruito ricalcando luoghi reali, libro dopo libro (un'operazione che ricorda da vicino Perec ma anche e di più Fabrizia Ramondino), l'andamento quasi fiabesco eppure fatto di inciampi realistici, popolari, prosaici, tutto questo insieme fa della Torre Annunziata in cui si muove Vincenzo un sito del cuore, dove si annidano dubbi e affetti, incertezze, scelte, dove si scalda silenzioso il mistero della personalità, il chi siamo, cosa veramente vogliamo dalla vita, il chi diventeremo. Antonella Cilento
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