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un po' piatto, certo anche a causa della (volutamente) fredda personalità della protagonista, ma sicuramente una buona prova di scrittura. nulla a che vedere con l'altro straordinario romanzo di Hein LA FINE DI HORN.
davvero una bella rivelazione. la riflessione dell´autore era evidentemente sulla Germania dell´Est, ma vale sinceramente per tutto un certo modo di sentire europeo, occidentale, per una maniera di sentire la vita descritta qui in maniera algida e non banale
Molto interessante l'ambientamento oltre cortina a berlino est. Un romanzo comunque molto occidentale sull'anestesia dei sentimenti. Bello.
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1987)
recensione di Cermelli, G., L'Indice 1987, n. 5
Christoph Hein, giovane scrittore fra i più seguiti e discussi nella Repubblica democratica tedesca, viene ora presentato anche al pubblico italiano con la traduzione di un racconto che ha suscitato vivissimo interesse nelle due Germanie (è stato infatti pubblicato anche nella Repubblica Federale con il titolo "Drachenblut" (Sangue di drago). Hein, già attivo come autore di teatro, si è accostato alla narrativa soltanto nel 1980, pubblicando un volume di prose brevi cui hanno fatto seguito nel 1982 "Der fremde Freund" (L'amico estraneo) e nel 1985 il romanzo "Horns Ende" (La fine di Horn). Il racconto è narrato in prima persona dalla protagonista, Claudia, ferrea eroina della rimozione, che ha escluso consapevolmente dalla propria esistenza gli spazi interiori in cui si collocano il dolore, la speranza, il progetto, quegli spazi in cui gli altri, gli estranei, possono irrompere. La sua è una strategia di sopravvivenza tesa ad addomesticare l'ignoto, l'imprevedibile, mantenendo le distanze da sé stessi e dagli altri uomini. La narrazione inizia con il resoconto dei funerali di Henry, l'"amico estraneo" morto nel corso di una rissa in birreria. Claudia rievoca con la precisione e il distacco di una testimone oculare la sua storia d'amore con un uomo come tanti, conosciuto occasionalmente ed altrettanto occasionalmente entrato a far parte di una vita in cui ogni evento è prevedibile come in un copione mediocre: la prassi ambulatoriale in una clinica, tutti i giorni perfettamente identica a sé stessa, le visite saltuarie ai genitori e ai conoscenti, la vacanza, un viaggio nei luoghi dell'infanzia, la malattia, la morte di qualche comparsa. Tutto rientra nel quadro di una quotidianità banale e rassicurante, scandita dalla ripetizione meccanica degli stessi gesti. Del tutto prevedibile e rassicurante è anche la dimensione creativa di Claudia, che si esaurisce nell' hobby della fotografia: "Non c'è più spazio per lo stupore e per i risultati inattesi. L'apparecchio consegna in modo attendibile quel che gli viene richiesto, non di più". E con un processo analogo al formarsi dell'immagine fotografica da una lastra impressionata la memoria di Claudia fissa in scorci immobili, privi di forza proiettiva, la cronistoria di un anno di vita trascorso senza stupore e senza speranza. Il ricordo consegna fedelmente ciò che ha registrato un apparato percettivo ridotto a "pelle", la pelle invulnerabile di chi si è immerso nel sangue del drago.
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