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Indice
1.
Caro Cogoi, a dire il vero non sono sicuro, anche se sono stato io a scriverlo, che nessuno possa raccontare la vita di un uomo meglio di lui stesso. Certo, quella frase ha un punto di domanda; anzi, se ricordo bene - sono passati tanti anni, un secolo, il mondo qui intorno era giovane, un'alba umida e verde, ma era già una prigione - ho scritto per prima cosa proprio quel punto interrogativo, che si trascina dietro tutto. Quando il dottor Ross mi ha incitato a stendere quelle pagine per l'annuario, mi sarebbe piaciuto - e sarebbe stato onesto - mandargli tanti fogli con un bel punto interrogativo e basta, ma non volevo essere scortese con lui, così benevolo e gentile, a differenza degli altri, e poi non era il caso di irritare uno che ti può togliere da una buona nicchia, come la redazione dell'almanacco della colonia penale, e spedirti nell'inferno di Port Arthur, a prenderti il gatto a nove code sulla schiena se solo per un attimo, sfinito da quei massi e dall'acqua gelida, ti siedi per terra.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Disarmante
Il Magris saggista è interessante, il Magris narratore è inesistente. Purtroppo l'autore continua a non voler capire che la scrittura saggistica o giornalistica e quella narrativa sono diverse. Il suo modo di raccontare è freddo, inespressivo e diventa inevitabilmente noioso perchè lo scrittore (usare la parola narratore in questo caso non avrebbe senso!)non riesce a creare personaggi, situazioni, in una parola "emozioni". Se poi, pensando di essere Joyce, Magris comincia anche ad ingarbugliare la trama, a puntare su salti temporali e spaziali, le cose non possono che peggiorare.
Senso di colpa,per ciò che non è stato, non ha vissuto, ma che sente addosso come un carico troppo pesante che lo schiaccia, lo atterra; coscienza estrema del sé e della storia di ciò che è stato e di ciò che sarà;viaggio nello spazio e nel tempo,immersione nei mari, negli oceani di tante esistenze; scomporsi, spezzettarsi, raccontare per vivere altre vite che non sono che un'unica vita; ricomporre i frantumi dello zaffiro, riunire le gocce di tanti mari, le storie di tanti uomini in spazi e tempi così diversi e tanto uguali; raccontarsi così opportunamente nascosto, facendo riemergere gli affetti, le persone che hanno contato, che sono sempre presenti; scrivere per raggiungere la purificazione, cancellarsi virtualmente per poter continuare a vivere.
Recensioni
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“Sì, siamo stati nelle tenebre. Però, e questo lo si sentirà gridare forte nella valle di Giosafat, noi lottavamo contro la tenebra, anche se sbagliavamo talvolta la mira, mentre loro, le camicie nere e brune, creavano la tenebra che ci faceva perdere la strada.”
Due sono i colori che dominano questo straordinario romanzo, un’opera che vede inadeguati aggettivi e commenti: il nero e il rosso.
Il nero della cecità, ciò che non riusciamo a vedere con “il cannocchiale accostato all’occhio bendato” (“Per un momento non ho visto più nulla, solo un pulviscolo abbagliante che mi feriva gli occhi”), il nero e il bruno delle camicie dei fascisti e dei nazisti. Rosso il vello insanguinato, il fazzoletto legato al collo che strangola, la bandiera per la quale, ciecamente ma con coraggio e orgoglio, si può soffrire e morire.
Il processo della vita e del narrare è un continuo incrociarsi di tempi e luoghi diversi, di identità e di scelte necessarie o improvvise, che però definiscono un tipo umano particolare, lo sconfitto, il perdente, colui che è sempre dalla “parte sbagliata al momento sbagliato” della Storia, e che ha, proprio in questo, la sua epica grandezza.
L’intero romanzo è un io narrante che, in un centro d’igiene mentale, scrive al terapeuta raccontando la sua vita (o meglio le sue molteplici vite). Niente di più lontano però da un altro fondamentale romanzo del Novecento, quella Coscienza di Zeno che condivide con quest’opera solo il pretesto narrativo, l’origine biografica dell’autore e (anche se può apparire ardito) la grandezza.
L’arco temporale in cui, nelle sue varie identità, si muove il personaggio narratore, Cippico (ma anche Jorgensen), va dal 1802, anno in cui la Tasmania viene annessa come colonia penale alla Gran Bretagna, a un cruciale 1981 quando Gorbaciov pone fine all’impero sovietico, fino a giungere a questi ultimi anni, caduto il Muro, crollate le illusioni e le speranze, in cui solo la voce di un pazzo può raccontare con orgoglio una sconfitta.
Il mare poi: uno dei temi fondamentali nella poetica di Magris, “qualcosa di grande in cui tutto si tiene e che sa sempre ciò che bisogna fare”; il mare su cui passano le polene, ad aprire il passaggio agli argonauti, i bei volti impassibili, i dorsi svettanti, occhi sempre aperti con uno sguardo “attonito e dilatato” che sa scrutare “qualcosa che ai marinai è vietato e sarebbe fatale sapere”.
Quando il mare si è ritirato ha lasciato dietro di sé “porcherie e fanghiglia raggrumata e tutte le barche in secca”. Ma la nave era già “franata addosso” agli impavidi ed era la stessa che aveva spinto tanti uomini a combattere e a rischiare la vita sotto il fascismo, a subirne la persecuzione, a combattere in Spagna dove il vello si era già macchiato di sangue fraterno perché gli occhi erano all’improvviso diventati ciechi, quindi a subire il lager nazista e la morte guardata negli occhi orrendamente aperti sull’orrore di “un uomo, spaventato, terrorizzato, ma uomo”. Infine la scelta di andare laddove la bandiera rossa poteva sventolare vittoriosa: la Jugoslavia. E qui la beffa, terribile, sconvolgente, qui Goli Otok, l’Isola Calva, aspetta Cippico e tanti altri compagni, le torture e, per molti, la morte: “il peggio è quando a metterti nella fossa dei serpenti sono i tuoi”. “Ecco perché dopo Goli Otok non si sa più bene quali sono i nostri… E io?”, dice il narratore, come tanti altri sconfitti.
Goli Otok: ne aveva parlato qualche anno fa in un suo libro, rimasto sconosciuto ai più, Giacomo Scotti (Goli Otok. Italiani nel gulag di Tito, ed. Lindt), uomo di sinistra, che ha per anni cercato di raccontare l’irraccontabile e che aveva osato spezzare un silenzio imposto sì dal Partito, ma funzionale a tutti. Ora, con Magris, quel luogo si trasforma nella poesia del dolore, nel simbolo di chi ha visto lacerare ideali e speranze da “mano amica” e macchiare di sangue il vello d’oro perennemente inseguito. Forse si potrà così evitare che l’industria del turismo ne cancelli totalmente la memoria perché “le cose bisogna raccontarle continuamente se no si dimenticano”.
E se “è la morte, è il rogo, è il tumulo che narra la storia di un uomo” la sua grandezza non nasce dal successo e dalla vittoria, ma da come ha osato affrontare il gorgo, cieco o accecato, epico eroe di una sconfitta.
A cura di Wuz.it
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