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recensione di Forni, E., L'Indice 1991, n. 5
Quando si parla di alcol la prudenza non è mai troppa. Non mi riferisco alla prudenza nei consumi, ma a quella nei giudizi morali, nelle diagnosi di alcolismo e nelle scelte del suo trattamento nonché nella valutazione dei risultati delle pratiche "terapeutiche". Questo volume dalla struttura manualistica e dal taglio multi ed interdisciplinare lascia trasparire che gli autori - entrambi psichiatri - hanno affrontato questo rischio con consapevolezza e con una notevole destrezza, che consente loro di mantenersi in equilibrio tra proibizionismo e liberalismo, tra condanna e assoluzione.
I diciassette capitoli, preceduti dalle prefazioni di un medico e di uno psichiatra (M U. Dianzani e G. Benedetti), affrontano diversi temi: come nasce e si sviluppa storicamente il rapporto con le bevande fermentate e distillate; quali sono le proprietà fisico-chimiche, farmacologiche, alimentari e psicotrope dell'alcol, come reagisce l'organismo umano quando assume alcol e quali effetti produce l'alcol sull'organismo.
Per non graficamente evidenziato, è qui che si può collocare il passaggio alla seconda parte del libro, laddove compare la parola più comunemente usata e al tempo stesso più difficile da definire: alcolismo. Gli autori cercano di mettersi sulle tracce più antiche di questo fenomeno cadendo nell'errore di etichettare come tale ciò di cui non abbiamo alcuna prova (possiamo ad esempio interpretare la morte per arteriosclerosi di Ramsete II come effetto del suo alcolismo?) e aderiscono incondizionatamente alla medicalizzazione dell'alcolismo che inizia nell'Ottocento e che sancisce da quel tempo in avanti il primato della classe medica nella gestione del trattamento - nonostante i risultati scoraggianti finora ottenuti. Largo spazio occupano i capitoli sulle cause individuali (biologiche e psicologiche), socio-culturali, economiche e familiari dell'alcolismo, nonché sui quadri clinici (complicanze psichiatriche, neurologiche e internistiche). Se il lettore andasse comunque a cercare risposta a domande del genere: "Ma insomma, quanti sono gli alcolisti oggi in Italia?" non troverebbe soddisfazione, perché gli autori non sono caduti nella trappola dei numeri e delle generalizzazioni improprie, delle comparazioni tra dati che utilizzano test di alcolismo diversi e spesso criticabili (passati in rassegna nel capitolo dedicato alla diagnosi).
Minor cautela hanno avuto Furlan e Picci nel presentare dati relativi a soggetti sociali identificati in base al sesso o all'età: nessuna indagine condotta a livello nazionale consente infatti di affermare, come essi fanno, che nel rapporto tra uomini e donne, per quanto riguarda le donne affette da dipendenza, "in Italia si è passati da un rapporto di 1:12 nel 1969 all'attuale rapporto di 1:2" (p. 229).
Prima di passare ad affrontare il tema della diagnosi, della profilassi e della terapia, i due studiosi sintetizzano altri aspetti della questione alcolica: il rapporto dell'alcol con la guida di automezzi, con la criminalità, con il lavoro e con il suicidio. Anche il paragrafo dedicato alla criminalità si presenta fragile; non avendo gli autori tenuto conto di alcuni tra i più autorevoli studiosi della materia (penso allo statunitense R. Room e al finlandese K. Malela), non può risultare chiaro al lettore che allo stato attuale delle conoscenze è impossibile affermare con certezza che senza l'alcol un certo comportamento criminogeno non si sarebbe verificato, mentre è possibile affermare che dal punto di vista farmacologico l'effetto disinibente dell'alcol non spiega tanto il comportamento "violento" quanto il comportamento "diverso" e che questa diversità assume significato e contenuti che sono il prodotto della cultura dei vari gruppi (etnici, sociali) e non dell'alcol in sé.
Il tema della profilassi è trattato in un breve capitolo, che rivela la scarsa considerazione in cui è tuttora tenuto, nel nostro paese, l'intervento preventivo, realizzabile sul piano dell'informazione e della formazione. Scuole, parrocchie, servizi sociali, caserme sono indicate come luoghi deputati alla trasmissione di informazioni adeguate sulle bevande alcoliche, ma inspiegabilmente, quando l'analisi si sofferma sulle caserme, il discorso si sposta su presunte predisposizioni dei militari di carriera all'alcolismo cronico e su altri dati che nulla hanno a che vedere con l'informazione: e perché non parlare allora anche dell'alcolismo degli insegnanti e dei preti? Le conclusioni lasciano aperti i problemi più importanti: quelli sulla validità dei dati relativi alla guarigione, se di guarigione si può parlare, in rapporto ai differenti approcci terapeutici (Alcolisti Anonimi, Club degli alcolisti in trattamento, terapie farmacologiche, psicoterapie); quelli sulla legittimità della ricerca a tutti i costi dell'astinenza; quelli sulla possibilità del ritorno dell'alcolista al bere asintomatico, da alcuni negata e da altri sostenuta. Un problema - linguistico - che invece Furlan e Picci mal risolvono, ossia la traduzione dell'espressione inglese 'ever abstinents' con "sempre astinenti", riferita alla tipologia di astinenti proposta da Vaillant, poteva essere facilmente affrontato consultando il dizionario: ever può anche significare "talvolta".
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