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L' albero della Rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese - copertina
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1989
1 gennaio 1997
XXIV-687 p., ill.
9788806115623

Voce della critica


recensione di Barberis, M., L'Indice 1990, n. 1

Un buon modo per catturare l'immagine proteiforme della rivoluzione francese, come è andata formandosi in duecento anni di interpretazioni storiche, filosofiche e letterarie, è forse proprio quello scelto da Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci in questo volume. Invece di raccontare la formazione nel tempo di quest'immagine, procedendo a ricostruzioni che avrebbero sacrificato il dettaglio all'insieme, i curatori del volume hanno inteso rendercela giustapponendo - in centotrenta voci affidate a una sessantina di specialisti e disposte in ordine alfabetico: da Lord Acton a Ulrich von Wilamowitz - le principali interpretazioni che hanno contribuito a costituirla. Il quadro che ne esce risulta in effetti sufficientemente caleidoscopico da restituire le proliferazioni e i sovraccarichi di senso che la Rivoluzione ha subìto e subisce: se è vero che è proprio per oggetti come questo che le interpretazioni non finiscono mai.
"Splendida aurora" (G.W.F. Hegel), "miracolo", "forza travolgente che piega tutti gli ostacoli" (J. de Maistre), "creazione seconda, che ancora una volta rifà l'uomo" (V. Hugo), "ultima grande sollevazione di schiavi", "farsa orribile e, a giudicarla da vicino, superflua" (F. Nietzsche), "delitto politico che servì ad aumentare una triste serie di delitti comuni" (C. Lombroso), "grande instaurazione violenta di questo piccolo mondo moderno" (Ch. Péguy), "mito" (A. Cobban), "nostra madre comune" (A. Soboul): queste sono solo alcune tra le tante eteroclite caratterizzazioni dell'Ottantanove che il lettore incontra in queste pagine. D'altra parte, lungi dal voler semplicemente restituire le interpretazioni correnti, le centotrenta voci dell'"Albero della Rivoluzione" costituiscono altrettante reinterpretazioni di tali interpretazioni. A costo di fornirne un'ulteriore reinterpretazione cercherò di mostrare quale sia l'operazione culturale in esso complessivamente realizzata, distinguendola da operazioni analoghe.
Rispetto a testi consimili - e in particolare rispetto a quel "Dizionario critico della Rivoluzione francese", curato da FranÞois Furet e Mona Ozouf, che ha incontrato anche in Italia un certo successo - l'"Albero della Rivoluzione" esibisce almeno tre caratteri differenziali. In primo luogo, esso non pretende all'esaustività del dizionario: come i curatori dichiarano nella prefazione, il suo obiettivo è semplicemente quello di fornire una rassegna delle principali interpretazioni della Rivoluzione, dalla quale sono escluse solo quelle attribuibili agli stessi attori del dramma rivoluzionario (con qualche significativa eccezione), quelle - solo parzialmente coincidenti con le prime - dei memorialisti, nonché tutte quelle manifestatesi in forme espressive diverse dalla scrittura.
In secondo luogo, rispetto a un "Dizionario critico" in gran parte dedicato ai fatti, il volume in oggetto è dedicato esclusivamente, come si è detto, alle interpretazioni della Rivoluzione. Questo non avviene certo in omaggio a quella che potrebbe dirsi una concezione nietzschiana della storiografia, per la quale, in ipotesi, non esistano fatti ma soltanto interpretazioni: concezione sottoscrivibile, semmai, da qualche seguace di Furet in vena di iconoclastia. L'obbiettivo sembra piuttosto quello di accettare la sfida del furetismo sul suo stesso terreno: il terreno di quella storia che è stata di volta in volta chiamata "revisionista", o "filosofica", o "critica", o "concettuale", o "per problemi", o, appunto, "interpretativa".
In terzo luogo, in effetti, l'"Albero della Rivoluzione" si lascia leggere anche come una risposta - se non al furetismo illuminato di molte pagine del "Dizionario critico", certo - all'ultrafuretismo, o furetismo volgare che sta furoreggiando in Francia e altrove. Si tratta di risposta quanto mai pacata, in cerca di un difficile punto d'equilibrio tra le diffidenze e i sospetti antifuretiani o antifuretisti dello storico professionale, e il riconoscimento della salutare sterzata problematica che Furet ha impresso alla storiografia rivoluzionaria: ma si tratta pur sempre di una risposta. Molti dei contributi al volume si lasciano infatti leggere come interventi in un dibattito al centro del quale si sono ormai insediate le tesi revisioniste.
Non penso tanto all'equilibrata voce dedicata a Furet da Bruno Bongiovanni, quanto ai contributi di Luciano Guerci su alcuni dei più illustri sostenitori della interpretazione classica della Rivoluzione, già bersagli polemici del revisionismo storiografico: segnatamente alle voci su Richard Cobb, Georges Lefebvre e Albert Soboul. Che Guerci, protagonista in passato di polemiche anche violente nei confronti del revisionismo furetiano, proceda a una qualche rivalutazione degli storici appena menzionati, reagendo ai giudizi ingenerosi formulati su di loro da Furet, non stupisce certo. Se qualcosa stupisce, semmai, è che il principale argomento allegato a loro favore sembri talvolta quello secondo cui si tratterebbe di revisionisti "avant la lettre".
Prendiamo, ad esempio, il ritratto di Albert Soboul tratteggiato da Guerci. Qui, diciamoci la verità, la rivalutazione era cosa abbastanza ardua - a differenza che per Lefebvre, e anche per Cobb - da scoraggiare qualsiasi rivalutatore: essendo difficile dir bene di un storico che, come lo stesso curatore ricorda, tacciava Furet e Richet di rinnegati, salvo uscirsene con il solito ritornello marxista secondo cui la Rivoluzione "si spiega in ultima analisi con la contraddizione tra i rapporti di produzione e il carattere delle forze produttive". Eppure, Guerci riesce a ritrovare un Soboul eterodosso e tutt'altro che ligio alle direttive del Pcf: quello "spregiudicato, e a suo modo revisionista", come lo definisce, della "thèse" su "Les sans-culottes parisiens en l'an II" (1958). Sul che si può concordare: ma con la precisazione che di "revisionismi" come questi son piene le fosse.
Accenti non dissimili trova Guerci per il Lefebvre ammiratore di Tocqueville, pregiatore della sintesi e del pensare per problemi, tutti aspetti che inducono il curatore a commentare: "pare di sentire il più autorevole degli attuali storici revisionisti, FranÞois Furet". L'indirizzo conciliativo verso il revisionismo storiografico - o forse il tentativo di assimilarlo alla tradizione storiografica precedente, sdrammatizzandone gli elementi di rottura - traspare poi dalle voci dedicate agli storici che, a torto o a ragione, passano per suoi precursori: penso alla voce "Alfred Cobban" di Anna Maria Rao, in cui l'obiezione maggiore rivolta allo storico inglese sembra quella, tradizionalmente rivolta ai furetiani, di essere più preoccupato "dal concetto di rivoluzione che dalla storia della Rivoluzione francese", o alla voce "Augustin Cochin" di Giovanni Carpinelli; ma penso anche alla voce "Jacob Talmon", dalla quale ciò che Bongiovanni chiama (spero ironicamente) "l'implacabile teleologismo delle idee" di Talmon esce davvero sin troppo bene.
Il lettore qualunque, ignaro di contese storiografiche e accademiche, sarà peraltro meno attratto dagli ultimi fuochi della guerriglia tra gli storici che dalla godibilità, anche letteraria, di alcune di queste voci. Penso, per esempio, alle mosse narrazioni che caratterizzano - e talvolta, ahimé, esauriscono - le voci "Benjamin Constant" e "Madame de StaÙl" a cura di André Jardin; al bel medaglione di Charles Péguy fornito da Sergio Luzzatto; a tutti i contributi di Remo Bodei, come al solito filosoficamente intriganti e filologicamente fondati. Come ha detto una volta Renan, nessuno ha colpa dei (bi)centenari: ma nel declinare di una stagione storiografica in cui tutto sembra essere stato detto, quest'"Albero della Rivoluzione" produce ancora frutti e fiori.
Esibirò allora un ultimo esempio di fiore, se non di frutto, prodotto da quest'albero a fine stagione: l'immagine della Rivoluzione capovolta e delirante, quasi riflessa dal frammento di uno specchio in frantumi, che troviamo nella voce "Cesare Lombroso" curata da Luisa Mangoni. Qui l'estensore lascia parlare l'interprete stesso, mostrando cosa può divenire la Grande Rivoluzione nelle mani di un antropologo criminale. Abbiamo così uno dei padri dell'Ottantanove, Rousseau, che passa dall'ipocondria alla melanconia alla manìa, sino a un "delirio megalomane, che si alterna col persecutivo"; dei protagonisti che vengono classificati nelle categorie dei "pazzi morali e rei-nati", come Marat, e dei "rei per occasione", come Danton e Robespierre, salvo includerli, in difetto di una fisiognomica abbastanza repellente, in quella dei "rei per passione".
E la Rivoluzione, la Rivoluzione vera e propria? Lombroso inclina a considerarla una semplice rivolta. Come scrive Luisa Mangoni: per Lombroso "le ribellioni erano in rapporto al clima, più frequenti nei climi caldi; alla razza, prevalevano nei popoli brachicefali bruni; erano connesse alla diffusione dell'alcoolismo; registravano una presenza attiva di donne; in esse i 'pazzi' e i 'criminali' erano assai più numerosi dei 'geniali'". Tutte cose reperibili nella rivoluzione francese, com'è noto; e difatti "Lombroso trovava puntuali riscontri nella vicenda storica: 'I prodromi della rivoluzione francese sono segnalati da comparse di stormi di vagabondi, di ladri e di assassini'; nel suo caso 'fu l'alcoolismo che attizzò gli istinti sanguinari della plebe e dei rappresentanti del Governo rivoluzionario'; le donne ne furono agli inizi 'fautrici caldissime'; essa fu caratterizzata dalla criminalità diffusa e dall'assenza di geni tra i rivoluzionari, come era confermato dal fatto che 'alla testa dei giacobini a Parigi vi furono dei veri banditi".

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