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Mia Lecomte non è autrice da libri "minimi" o "minori". E anche questo di certo non lo è. Piuttosto è un libro duro: la poesia è scorticata, scabra, e non c'è la benché minima concessione al leggerissimo o al superficiale. L'esigenza di scrittura è il dolore, ma anche se è vissuto appieno si avverte sempre il tentativo di tenerlo a distanza per non venirne sopraffatti. E questo grazie alla durezza della sua musica interna, alle immagini spesso appuntite e comunque mai ovattate, alle similitudini ardite e di un'inventività sconcertante: "I morti ci festeggiano nel giorno dei morti /?/ noi ci vediamo costretti a difenderci " ; "? ma ecco che una poesia si avvicina e non sai dove metterla". Tutto così crudo, dunque, ma così convincente, e così terribilmente "umano". E la crudezza che scompare di colpo in " P.S", una poesia, non a caso, tra le ultime (p.55), a sorpresa di una fresca levità, aleggiante e a differenza della altre apparentemente senza peso, ma con un enorme peso di significato: il riordino del sé, la pausa ritonificante, il destino accettato con un sorriso. È in qualche modo la vera conclusione del libro, e comunque la mia preferita. E dunque chiudo riportandola per intero: "Perdonami se sono di nuovo felice / si è passati dall'inverno che hai perso / poi qualcosa è cambiato / neanche tu te lo sapresti spiegare / ma non piango più così spesso / ricomincio a dormire su un fianco / non potresti mai crederci / ma la luce è tornata alla luce / anche il tempo indispensabile al tempo per / riprendere un'altra volta il suo posto / regolo il volume alla radio l'acqua in gradi / del dolore ho fatto mediocre poesia / e il gatto l'abbiamo seppellito nel fiume".
Poesie per puntellare luoghi dell'anima più che del mondo, quelle che Mia Lecomte ha raccolto in questo libro suggellato da un titolo lapidario nella sua definitezza constatativa. Relazioni interrotte ma non perdute, fissate musealmente in un album fotografico mentale, recuperabili, quindi, in una memoria visiva e sentimentale incapace di rancore, e in grado sempre di considerare un arricchimento qualsiasi esperienza vitale, del presente o del passato. Poesie che prendono spunto da un accadimento localizzato in un dove preciso, dei tanti da lei percorsi, nel suo viaggiare assiduo tra Parigi (dove vive) e Roma, Lugano, Toscana, Milano, Londra: mete imposte alla sua inquietudine dagli impegni familiari e lavorativi. Parigi, città d'elezione, con la casa «sul confine tutto interno al guardare», diventata estranea e ostile dopo un abbandono. Casa in cui ti perdi come in un labirinto, e da cui non puoi uscire «perché fuori non ti è rimasto altro». Mia Lecomte si confronta con il suo vissuto senza assolutizzarlo, anzi inserendo la sua vicenda personale nel destino comune a tutti, di nascita-crescita-invecchiamento-morte; descrive treni, aerei, ospedali, cimiteri, nozze, sfilate di moda, spettacoli, incontri e nuovi amori, angosce e impreviste felicità. Dall'episodio particolare sa alzare lo sguardo alla vicenda cosmica, dal mito alla scienza, dalla cronaca alla storia senza soluzione di continuità: non c'è nemmeno un punto fermo, in tutto la raccolta. Orgogliosa della propria femminilità, ne accetta sia la fisicità ormonale, sia l'abitudine materna alla dedizione, mai arresa tuttavia alla sottomissione, e sa scuotersi da ogni lamentevole autocompatimento, convinta che provvisorietà e imperfezione nascondano la possibilità di un rinnovamento, di una sorpresa, dell'avverarsi della poesia: «Arriva un bastimento carico di, / sto dicendo, ora io ci salgo».
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