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Dopo il forse insperato successo di Un matrimonio mantovano, nel 1981 esce quello che potrebbe apparire un seguito, ma non lo è, vale a dire Un adulterio mantovano. Non è un seguito, perché i personaggi sono diversi e anche l’ambientazione non è la stessa, non è Gazzuolo, piccolo borgo di campagna, ma la città, vale a dire Mantova, una Mantova colta, raffinata, vista nell’epoca del precedente romanzo, cioè nel 1912. La trama è completamente diversa, non ci sono strategie e tattiche per convolare a nozze, anzi qui c’è una coppia già unita nel vincolo del matrimonio, lui Ernesto, ingegnere, un po’ sparagnino come tutti i mantovani e in aggiunta fervente cattolico, lei nobile, la bella e irrequieta Francesca, all’apparenza solo soddisfatta della sua vita. Ma, pur nelle convenzioni di un’epoca, l’eterno femminino che la porta a soddisfare il suo ego facendo di tutto per strappare complimenti sulla sua persona è un diavoletto dietro l’angolo, come un diavoletto è il conte Vezio, fulminato dallo sguardo ammaliante e dalle forme seducenti di Francesca. Insomma, per farla breve, il tradimento viene quasi del tutto naturale e si instaura un rapporto a tre, lei con l’amante, un uomo che incarna gli stilemi della bella epoque, un D’Annunzio meno estroso, ma tutto portato all’autoesaltazione, all’adorazione del proprio “io” , e lei con il marito Ernesto, tutto l’opposto dell’altro, pragmatico, simbolo della nascente nuova borghesia. In questa strana relazione mi pare di aver capito che gli unici capaci veramente di amare sono Ernesto e Vezio, mentre Francesca è nulla più di una civetta, una che in dialetto mantovano definiremmo “na ligera”, una donna che ritrae più piacere dal sentirsi desiderata che dall’essere amata veramente. Il menage non ha una breve durata e se i contatti si interrompono è solo per colpa della guerra, perché i due uomini vanno a combattere. Anche questo è un altro avvincente gioiellino.
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