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Dettagli

1990
1 gennaio 1990
320 p.
9788871441580

Voce della critica

FEYERABEND, PAUL, Dialoghi sulla conoscenza, Laterza, 1991
FEYERABEND, PAUL, Addio alla Ragione, Armando, 1990
recensione di Lovisolo, D., L'Indice 1992, n. 3

Supponiamo che siate di quelli che pensano che la pretesa dell'occidente di imporre a tutti e dappertutto le sue soluzioni sia all'origine di buona parte dei disastri ecologici, sociali, produttivi che devastano il nostro pianeta; supponiamo anche che pensiate che solo la tolleranza e la capacità di comprensione reciproca fra culture e storie differenti possa garantire un avvenire un po' meno orribile di quello che ci si prospetta; e che, per finire, abbiate qualche dubbio sulla bontà stessa di concetti che vi hanno sempre fatto passare per garantiti, come progresso, conoscenza oggettiva e simili.
Leggendo "Addio alla Ragione" di Paul Feyerabend potreste rischiare di chiedervi se non c'è qualcosa che non va nella vostra visione del mondo. Niente di grave, fa sempre bene leggere qualcosa che costringe a ripensare le proprie scelte: il guaio è che Feyerabend vuol proprio dimostrare la giustezza delle idee di cui siete convinto anche voi... Un cattivo servizio reso ad una giusta causa? Forse, almeno in parte, ma il libro merita due parole in più.
Il libro raccoglie scritti e contributi prodotti in un arco di anni abbastanza ampio, e riprende i temi della polemica che Feyerabend aveva sviluppato nei libri precedenti (in particolare "Contro il metodo" e "La scienza in una società libera"), in un certo senso sistemandoli e organizzandoli.
La polemica è contro la scienza occidentale e la sua ideologia, come si sono formate storicamente e come si dispiegano oggi, e si accompagna ad una denuncia delle conseguenze che la struttura, i prodotti, il dominio della scienza comportano per chi la riconosce come lo strumento principale-se non l'unico-di conoscenza, e anche per chi non la riconosce come tale.
Non è un discorso interno alla filosofia della conoscenza, piuttosto un tentativo di demistificare le pretese dell'ideologia della scienza di essere strumento oggettivo, per riportarla alla sua soggettività e parzialità; per toglierle quindi ogni diritto di dominio, e riaffermare il diritto all'esistenza di una molteplicità di approcci.
I piani su cui si sviluppa l'argomentazione sono molti e variegati, ma si possono sommariamente così riassumere: a) la pretesa della scienza occidentale di essere l'unica forma di conoscenza oggettiva è assolutamente infondata, anzi non ha senso parlare di "oggettività"; b) questa pretesa si è sviluppata storicamente, dai Greci alla scienza del Seicento a quella del nostro secolo, non con argomentazioni, ma con negazioni e imposizioni; c) di conseguenza, è altrettanto arbitraria la pretesa degli scienziati, o meglio degli ideologi della scienza, di far decidere solo agli "esperti" su tutto quello che riguarda le questioni scientifiche (e questo vuoi dire, nel nostro mondo, quasi tutto, osserva il nostro autore); d) tutte le "tradizioni", intese come aggregati culturali organizzati ed omogenei, devono avere le stesse opportunità nelle società democratiche; e) nessuno può imporre nessuna opzione a nessun altro, ed anzi non ha nemmeno senso consigliare alcunché agli altri; per quanto lo riguarda, il nostro si rifiuta di schierarsi astrattamente per il Bene e contro il Male; bisogna combattere 'nella pratica' la crudeltà e l'oppressione, ma senza "prendere posizione", senza condanne: "perché nessuno è in grado di dire quanto bene ci sia ancora in esso [il Male] e in che misura l'esistenza anche del bene più insignificante sia legata ai crimini più atroci" (p. 310).
Vale la pena soffermarsi sul primo argomento, che è quello che più direttamente si ricollega agli scritti precedenti. La negazione che possa esistere una teoria della scienza e della conoscenza porta qui ad ulteriori, radicali conseguenze: i valori non influenzano solo l'applicazione della conoscenza, ma sono parte integrante della conoscenza stessa, e non se ne può quindi prescindere: "le decisioni che riguardano il valore e l'uso della scienza non sono decisioni scientifiche; potremmo chiamarle decisioni 'esistenziali'..." (p. 31). La scienza non è un tutto omogeneo, ma consiste di eventi e scoperte contingenti, che in determinate condizioni hanno cercato di dare risposte, a volte fortunate a volte no, a problemi specifici. Ogni caso va esaminato separatamente, e nessuna supremazia può essere vantata rispetto ad altre pratiche e concezioni del mondo (le "tradizioni"). Non esiste una linea di progresso tracciabile univocamente, una transizione progressiva dalla non scienza alla scienza: il passaggio da una forma di conoscenza ad un'altra (ad esempio dalla meccanica aristotelica a quella galileiana, da quella classica a quella relativistica) non è accrescimento quantitativo, ma la sostituzione di una concezione con un'altra: si tratta di approcci incommensurabili. La battaglia fra concezioni qualitative alternative non ha mai termine: una via viene abbondonata per motivi soggettivi (mancanza di soldi o di pazienza ..), mai confutata. Questo porta ad un rifiuto del razionalismo e dell'"umanesimo scientifico", e ad una concezione per cui ogni "tradizione" può portare qualcosa di positivo, e tutte devono avere uguale ascolto (e, per esempio, uguale accesso ai fondi statali).
Feyerabend introduce il concetto di "relativismo democratico" per chiarire e definire questa sua impostazione. Il "relativismo democratico" non esclude la legittimità della ricerca di una realtà oggettiva: ma senza che questa sia vincolante, restando sempre come ultimo arbitro "il controllo (soggettivo) dell'opinione pubblica" (p. 57).
Questa critica al razionalismo e alle pretese degli "esperti" viene sviluppata con un'abbondante serie di esempi storici, tesi a ricostruire come queste tendenze si siano formate nella cultura occidentale. Il primo passo spetta ovviamente ai Greci; e Senofane, che per primo osò mettere in ridicolo le tradizioni e le tendenze dominanti del suo tempo (sostanzialmente la tradizione omerica, con i suoi dèi "locali" che somigliavano tantissimo agli uomini), appare come il primo antipatico razionalista, e lo stesso Platone, che critica il relativismo di Protagora, non appare in una buona luce.
Nell'età moderna, Galileo ("ansioso imbroglione"), Descartes e soci avrebbero semplicemente spazzato via idee consolidate, vantaggiose per molti, che a loro non andavano bene, sostituendole con altre senza fondarle su alcuna argomentazione, per lo meno con argomentazioni non migliori di quelle degli aristotelici.
La fisica del Novecento viene colta nei suoi aspetti più contraddittori; una particolare lettura di Mach porta Feyerabend ad affermare che non ci sarebbe alcun legame fra creazione teorica e senso comune, finendo così col rivalutare gli aspetti inconsci, innati, genetici nella formazione dei concetti. E si può immaginare, da quanto detto finora, che fine può essere riservata a Popper e alla sua teoria della falsificabilità.
Il libro si legge con fatica e disagio, soprattutto se si condividono molte delle preoccupazioni che sembrano aver spinto l'autore a scriverlo. Il Grande Demistificatore continua a colpire, e molti dei suoi bersagli sono azzeccati; ma c'è qualcosa che non quadra.
Intanto, le continue oscillazioni: nel giudizio riguardo alla scienza, che a tratti non è considerata, 'come pratica', incompatibile col relativismo democratico, a tratti è considerata come diretta responsabile delle devastazioni di questo pianeta; o in quello riguardo agli scienziati, gli "esperti", a volte considerati utili come guide (non sostituti) del giudizio dei cittadini, a volte considerati come padroni che vanno trasformati in servitori (p. 106). C'è un fondo inquietante di autoritarismo, che affiora qua e là, come quando si parla di proteggere la scienza "dalle tradizioni non scientifiche" (p. 40). Cosa vuoi dire? A chi tocca il compito?
E qui si arriva ad uno dei nodi cruciali del libro: il ragionare in termini di "tradizioni". Tradizioni che in fondo non vanno disturbate, e che vengono viste come qualcosa di statico, di astorico. Non c'è dentro molte di quelle tradizioni a cui Feyerabend si riferisce (dai creazionisti, all'astrologia, al dogmatismo religioso, e- perché no-al dogmatismo scientista) una struttura profondamente autoritaria, unicamente preoccupata del mantenimento del proprio dominio, che vanifica ogni possibilità di realizzazione pratica di quel "relativismo democratico" che il nostro autore un po' idealisticamente auspica?
Ecco di nuovo affiorare un autoritarismo quasi fatalista: "Cambiare le credenze di base legate a usanze radicate e a istituzioni familiari o 'aprire le menti', è un esperimento sociale. È un esperimento pericoloso, perché aprire le menti a certi aspetti significa sempre chiuderle ad altri. Dunque idee con un debole sostegno non dovrebbero essere introdotte in modo aggressivo, dovrebbero essere controllate nelle loro conseguenze... San Bellarmino sollevò proprio questo punto, inutilmente" (p. 178). Ogni possibilità di azione per il cambiamento, di rifiuto della tradizione in cui per caso si è finiti, sembra diventare oggetto di sospetto, se non di repressione. Le tradizioni sono concepite come strutture "chiuse", e sfortunato chi capita in quella sbagliata.
Non si può fare a meno di ricordare come, di fronte al problema di chi dovrebbe risolvere i conflitti fra tradizioni, Feyerabend non esiti a ricorrere alla polizia: "... è più umano regolare il conflitto mediante restrizioni esterne-questo tipo di tradizioni possono essere facilmente rimosse se si trovano poco soddisfacenti- piuttosto che migliorare le anime" (p. 305). La polizia non è niente altro che una tradizione fra le tante, per dirla con Feyerabend, e personalmente, se proprio devo scegliere, preferisco l''establishment' scientifico alla polizia: conosco le magagne del primo e le botte sulla testa della seconda, e alla fin fine non ho dubbi su qual è il male minore.
Questo approdo aiuta forse a chiarire la portata inquietante del relativismo conoscitivo di Feyetabend. A p. 103 si legge: "Il regionalismo dei fenomeni naturali non venne mai superato, n‚ dai filosofi, n‚ dagli scienziati..." Attenzione: non si parla di " regionalismo" dell'interpretazione dei fenomeni naturali, ma dei fenomeni stessi! E la questione delle tradizioni assume una valenza (mi perdoni Feyerabend) 'teorica'. È sicuramente vero che le specifiche forme di conoscenza sono il prodotto di condizioni storiche particolari ed irripetibili: ma è possibile che questo prodotto non abbia validità al di fuori di quelle condizioni specifiche? Che tutto quello che gli uomini hanno prodotto sia prigioniero della tradizione in cui per avventura si sono trovati ad operare? Il mondo è già abbastanza orribile e triste così, senza che ci mettiamo ad inventare altri dèi crudeli. Forse niente ci garantisce in assoluto che, come dice Feyerabend, "possiamo separare il processo dal risultato senza perdere il risultato" (p. 81), ma la storia dell'umanità ed il senso comune, per dirla col nostro autore, ci incoraggiano a sperare che qualcosina almeno si salvi dai flutti
C'è però un seguito a questa storia. Pochi mesi fa è uscito un altro libretto, "Dialoghi sulla conoscenza", che raccoglie due storie gradevoli, due scherzi intelligenti sul tema del dialogo platonico. È tutto il contrario dell'altro libro: si legge con piacere, la polemica, sempre caustica, è sviluppata con una certa bonarietà e senza l'aggressività e l'arroganza di "Addio alla Ragione". Nel secondo dialogo, Feyerabend cerca invano di sfuggire all'inviato di un editore che lo insegue in un prato montano, e intanto con lui passa in rassegna alcune delle polemiche che i suoi libri hanno scatenato. La cosa interessante è che riprende il tema del relativismo e delle "tradizioni", ed afferma di aver cambiato opinione su molti punti: ad esempio "le tradizioni per loro stessa natura cercano di valicare i propri confini-e lo devono fare, se vogliono sopravvivere" (p. 93).
Emerge da questo dialogo una concezione molto più dinamica della precedente, che mette in discussione molto dell'impianto intransigente del libro precedente. È bello vedere come, pur non più giovanissimo, l'autore mantenga un'agilità notevole e non si sclerotizzi sulle sue posizioni: certo è che, se bene o male si affidano le proprie idee ai libri, e non si è contrari in linea di principio a che la gente li legga, un po' più di riflessione, anche nella polemica, potrebbe forse evitare molte incomprensioni e confusioni.

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Paul K. Feyerabend

1924, Vienna

Filosofo della scienza austriaco. Dopo aver conseguito il dottorato a Vienna, si  trasferisce negli Stati Uniti, dove insegna all'Università di Berkeley, e successivamente in Svizzera al Politecnico di Zurigo.Si è occupato di problemi filosofici della microfisica, ma i lavori che hanno goduto di maggior diffusione (e quelli per i quali è ricordato ancora oggi) sono le sue critiche all'empirismo, che lo hanno portato a formulare una teoria di "anarchismo metodologico".Feyerabend contesta in particolar modo il metodo empirico nella versione che ne danno autori come E.Nagel e C.G.Hempel, e sostiene che le teorie della riduzione e della spiegazione scientifica così come le hanno formulate questi ultimi, sono inaccettabili.Dal punto di vista del metodo, Feyerabend...

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