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Recensioni A Sarajevo il 28 giugno

A Sarajevo il 28 giugno di Gilberto Forti
Recensioni: 5/5
Una domenica di giugno, a Sarajevo, avvenne il fatto che divide in due la storia del XX secolo: l’attentato in cui fu ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando. Prima di quel giorno, esisteva un mondo che presto sembrò remoto. Dopo quel giorno, è già il nostro presente. Se le guardiamo da vicino, quelle ore traversate da un invisibile confine appaiono gremite, come tutte le altre, di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri fortuiti. Gilberto Forti ha avvicinato ad esse la lente della poesia e ne ha estratto undici «storie in versi» che si presentano con quella felice sobrietà narrativa di cui l’autore aveva già dato prova nel "Piccolo almanacco di Radetzky". A parlare sono, ogni volta, personaggi immaginari che raccontano la realtà. E subito ci vengono incontro voci e figure, dall’Imperatore Francesco Giuseppe, che «si dà pensiero per i funerali / come se tutto il resto non contasse», all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte all’attentatore, da una vecchia duchessa a un ingegnere ungherese. E gesti, episodi, parole si dispongono tutti intorno a un centro: l’uniforme troppo stretta di Francesco Ferdinando che ancora oggi possiamo vedere, con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Imponente è la catena dei casi, delle inconsce volontà, dei consapevoli disegni che portarono a quei colpi di pistola, come se gli eventi fossero calamitati. E quasi come se la vittima li avesse cercati. Francesco Ferdinando qui non parla, ma altri parlano di lui. E, dal sovrapporsi delle voci, Forti è riuscito a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia: sterminatore di animali (più di trecentomila furono da lui uccisi cacciando), appassionato di fiori (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri, costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico, finirà dissanguato sotto i colpi di Gavrilo Princip anche perché nessuno saprà aprirgli subito l’uniforme, che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’incipiente obesità. )
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