Muovendo dagli studi di Clay A. Johnson, non appare ostico convincersi che stiamo elaborando una notevole quantità di ricerche e di analisi sull'information overload ma stiano dedicando un'attenzione meno estesa (quantitativamente, e non solo) all'information consumption. Eppure, quest'ultima problematica ha un ruolo sempre più crescente nello spazio del nostro vissuto quotidiano se ogni ricerca internazionale (e non soltanto la nostra esperienza diretta) ci rende evidente che nelle società occidentali l'uso della televisione e della rete arriva a coprire "più della metà" delle ore di veglia. E se attenzione comunque poniamo alle forme e ai modi di quest'uso, molto spesso ci concentriamo sull'aspetto tecnico di queste modalità piuttosto che sulle connotazioni culturali e psicologiche che ne derivano. Badiamo insomma di "stare ben al passo" con le nuove applicazioni ma non riflettiamo a dovere sull'impatto delle evoluzioni comunicative nel nostro stile di vita. Con la conseguenza che attribuiamo diffusamente il concetto di innovazione all'evoluzione delle strumentazioni tecnologiche ben più che al dibattito sulle conseguenze comportamentali di questa incessante evoluzione, a livello individuale ma anche collettivo, cioè proprio dello spazio pubblico. Gui, sociologo dei media alla Bicocca di Milano, interviene decisamente su questo ritardo concettuale, determinante sempre, ma determinante oggi più che mai per il rilievo che sta avendo il dibattito in corso sull'innovazione digitale da importare nel nostro sistema scolastico. Gui è ben consapevole di quali profonde modifiche sull'apprendimento comporti il computer in classe, o la lavagna multimediatica, e questa sua consapevolezza viene qui proposta come occasione per una riflessione (ancora non sufficientemente esplicitata a livello istituzionale) sulle scelte da compiere: se cioè le competenze digitali siano da proporsi come parte di un progetto di media education o se, invece, debbano essere una componente trasversale della didattica. Esemplificazione immediata: nel campo della formazione, come si pone la relazione tra l'impostazione "lineare e argomentativa" del sapere, oggi prevalente, e invece la modalità comunicativa "frammentata" che è propria dei media digitali? L'attenzione su questo aspetto, dopo la lettura d'un testo che è comunque più complesso per i molti riferimenti culturali e sociologici, nasce dal fatto che Gui nella sua impostazione muove dalla considerazione che il pubblico dei nativi digitali (accettando o no la selezione generazionale, ma dando tuttavia particolare rilievo all'intensità della pratica digitale tra i più giovani) ha, sì, grande capacità nell'uso delle nuove tecnologie, però questa sua capacità non è accompagnata da un'adeguata consapevolezza culturale. Il titolo del libro, e parte della sua esposizione, trovano un riscontro immediato nella realtà del consumo, molto simile, tra offerta alimentare e offerta informativa, cioè di una sovrabbondanza prima sconosciuta in entrambe le offerte, e però anche dei rischi di obesità (di cibo e di comunicazione) che derivano da questo overload. Rischi che, se pur hanno oggi una qualche attenzione nell'ambito alimentare, non sembrano ancora sufficientemente considerati nel campo dell'informazione digitale. Gui mette perciò in guardia su questa insensibilità, favorita da processi industriali della comunicazione che privilegiamo la sollecitazione al consumo ben più che la costruzione di una consapevolezza. M. C.
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