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Si crede sempre di conoscere il passato attraverso i libri di storia, ma alla fine mi rendo conto di non essere conscia della gravita' di molti fatti che hanno colpito l'umanita' fino a che non ne leggo le testimonianze. Un libro da far venire i brividi che tutti dovrebbero leggere, soprattutto coloro che, fortunatamente come me, non hanno vissuto quelle realta' ma che e' giusto che sappiano, perche' la memoria di simili avvenimenti non deve mai offuscarsi.
Io sto leggendo il libro e lo sto finendo.Nonostante sia inesperta su questo campo visto che ho letto solo una decina di libri (ho solo 14 anni)credo non sia ripetitivo e riesce a mandare al lettore grandi senzazioni e sentimenti.
Una fetta di storia sconosciuta, anche da chi vive da quelle parti (vedi Val Trebbia). Un poco ripetitivo nel citare tutti i deportati, ma forse, un atto dovuto alla memoria. Un buon finale.
Recensioni
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recensioni di Coletti, V. L'Indice del 2000, n. 02
Giampaolo Pansa non riesce più a ritornare sulla storia recente d'Italia, che tanto lo intriga come uomo e come intellettuale, se non ripercorrendola lungo strade che ne restituiscano la concreta drammaticità, quella che solo la vicenda dei singoli (siano pur milioni), delle persone semplici e più marginali può comunicare. Tanto più perché, come e più di sempre, Pansa è attirato dalle storie del dolore e della passione, della tragedia collettiva e della resistenza individuale, e specialmente dalle angosce e dalle umiliazioni dei vinti, dei perduti. Per questo, credo, l'ottimo cronista continua a scrivere la storia dell'Italia del secondo Novecento in forma di romanzo. Anche questa volta - tornando su temi e situazioni già in parte toccate in I nostri giorni proibiti - Pansa racconta la nostra storia con gli occhi (ce lo dice lui stesso dando la parola al narratore nell'ultima parte del libro) di chi l'ha vista da dentro, da sotto i grandi eventi, i luoghi decisivi, i momenti cruciali che tutti conoscono. È la storia di due grandi, diversi gruppi di caduti, di vinti dalla ferocia della guerra: gli ebrei, innanzitutto, della cui piccola comunità casalese Pansa ricostruisce la tragica deportazione nei campi nazisti; e poi i fascisti rimasti tali fino all'ultimo, i repubblichini di Salò, esposti alle vendette e alla crudeltà delle loro vittime di poco prima. Pansa segue una ad una la vicenda degli ebrei della sua Casale: le loro famiglie, le loro case, il loro terribile destino. È un elenco vivo e raggelante, una sorta di grande e luttuoso appello dei sommersi dalla belva nazifascista, una restituzione pietosa e indignata del nome, del passato, degli averi a chi è stato dissolto nel fumo dei camini di Auschwitz. Pansa non omette neppure i nomi (quelli veri, storici) dei loro persecutori, degli zelanti poliziotti e carabinieri italiani che non esitavano ad arrestarli per conto delle SS, dei loro delatori, i vicini di casa che si affrettavano a incassare il compenso della loro complicità col delitto occupando appartamenti, impossessandosi di mobili, quadri, vestiti. La grandiosità del male è pari solo alla meschinità dei carnefici, lo sappiamo bene, ed è consentita soprattutto dalla egoistica distrazione dei testimoni: Pansa non manca di ricordarlo. Ma non dimentica i carnefici e i loro complici neppure se e quando diventano a loro volta vittime: il sangue, le violenze, le umiliazioni inflitte dai vincitori (e tanto più da quelli dell'ultima ora) agli sconfitti non gli fanno meno ribrezzo, anche se ben diversa è la causa di quella guerra prolungata e oscura. Pansa sa che anche nella vendetta sul repubblichino, sul collaborazionista, l'uomo rivela non la sua indignazione, ma la sua crudeltà, non il suo amore per la pace, ma la sua attrazione per la guerra. Di queste nefandezze infinite, di quella, senza pari per abiezione e dimensioni, perpetrata sugli ebrei, di quella perfida e selvaggia dei fascisti sui partigiani, di quella impietosa e stolta delle "volanti rosse" sui repubblichini (nel paese delle masse convertite all'antifascismo nel giro di una notte!), il libro di Pansa è registro implacabile e denuncia forte, nobile.
E il romanzo? La storia d'amore tra l'ausiliaria repubblichina e il giovane ebreo scampato ad Auschwitz testimoniata dall'affettuoso e curioso bambino che guardava le donne nella Casale del primo, gelido, duro dopoguerra? C'è, con tutti i tratti (tematici e stilistici) ormai collaudati dall'autore e a volte, per la verità, messi giù anche un po' frettolosamente.Si lascia leggere bene, aiuta a leggere anche quello che è duro, pesante, angosciante. Mai come in un caso come questo si vede, si tocca con mano l'antico, eterno potere consolatorio della letteratura, perfino quando denuncia con rabbia e si aggira tra la morte e il dolore. Il romanzo di Pansa, poi, lo fa in modo particolare; perché è nel romanzo (indipendentemente dal grado di verità dei fatti narrati) che il male si attenua un po', che i nemici possono almeno sognare di riconciliarsi. Non nella storia; Pansa lo sa bene e le ultime parole del libro lo ribadiscono. Nel Bambino che guardava le donne la forma romanzo (anche un po' rosa, come ironizza il narratore stesso) è però soprattutto uno strumento espositivo che integra e fascia la ricostruzione saggistica, mai così ampia ed estesa in Pansa romanziere come qui. Serve a dare alla ricostruzione storica quello spessore di concretezza, quel passo commisurato ai volti veri, quella presenza alle persone, quella evidenza alle cose che la trattazione storiografica inevitabilmente non trasmette nella stessa misura, essendo più fredda e distante. Il romanzo consente lo sguardo partecipe e curioso di chi guarda gli eventi dal basso, come fa il bambino protagonista, e non dall'alto e da lontano, come fa lo storico. E Pansa è sempre troppo vicino alla povera sto-ria d'Italia per guardarla da lontano.
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